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Nella notte di San Silvestro, a Roma, ottantatre vigili urbani su cento hanno ‘’marcato visita’’ o hanno trovato altre forme per assentarsi dal lavoro. Considerando le condizioni di traffico e di affluenza per le strade del centro (e non solo) che connotano la ‘’notte più lunga dell’anno’’ non si è trattato soltanto di un vistoso fenomeno di assenteismo, ma di un grave atto di irresponsabilità collettiva che niente può giustificare.

Fatti di questo genere ricordano lo sciopero dei controllori di volo licenziati da Ronald Reagan negli anni Ottanta. E mettono in evidenza – al pari di Mafia Capitale – il logoramento del tessuto sociale di una città in cui si è completamente smarrito (si pensi anche ai motivi dell’abbandono della direzione del Teatro dell’Opera da parte di Riccardo Muti) il senso del dovere.

Sulla vicenda si annunciano inchieste, si promettono sanzioni, anche se il caso – possiamo immaginarlo – si risolverà in un’altra occasione perduta. Perché la società non ha modo di difendersi dall’arroganza dei poteri organizzati. L’abuso del certificato medico si è verificato, a Roma, nel bel mezzo di un dibattito sulla licenziabilità dei pubblici dipendenti, connessa all’opportunità (o meno) dell’applicazione, nei loro confronti, del decreto legislativo che darà corso al contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti, con annessa protezione contro il recesso illegittimo, secondo quanto indicato nel Jobs act Poletti 2.0.

Chi scrive ha espresso l’opinione che quel testo – nell’attuale stesura dello schema preliminare predisposto da Governo la vigilia di Natale – non sia estendibile, sic et simpliciter, al pubblico impiego. In primo luogo, perché è il testo ad escluderlo quando, all’articolo 1, delimita il campo di applicazione, facendo riferimento agli operai, agli impiegati e ai quadri (figure professionali tipicamente appartenenti al mondo del lavoro privato) ed ignorando i dirigenti (che nella PA godono di una specifica tutela contro il licenziamento ingiustificato, mentre quelli privati ne sono privi).

Va, poi, fatto notare che le norme previste per i licenziamenti economici prefigurano fattispecie completamente differenti  rispetto alle regole e alle modalità previste per affrontare la questione di eventuali esuberi nella pubblica amministrazione, dove, per tante ragioni, non può sussistere il recesso individuale per motivi oggettivi.

Diverso è il caso del licenziamento disciplinare. E’ vero che è prevista una specifica casistica (raccolta nel dlgs n.165 del 2001, novellato dalla riforma Brunetta del 2009) che include – tra i motivi disciplinari –  anche il licenziamento  per ‘’insufficiente rendimento’’. Ma è il cambiamento della tipologia sanzionatoria che merita di essere recepito anche nel settore pubblico.

Nella normativa vigente, infatti, se il giudice considera ingiustificato il recesso condanna l’amministrazione alla reintegra. Applicando, invece, nella fattispecie di licenziamento disciplinare, la nuova disciplina prevista dal Jobs act  per i nuovi assunti nella PA, la sanzione normale diventerebbe di natura indennitaria, salvo i casi (tuttora sottoposti invece alla reintegra) in cui fosse provata l’insussistenza del fatto materiale. L’armonizzazione delle tutele su questo punto richiederebbe – sul piano della tecnica legislativa – l’adozione di  norme di coordinamento; ma il salto di qualità sarebbe notevole ed importante.

Se così è, non sembra indispensabile risolvere il problema nel contesto del disegno di legge Madia: essendo anch’esso una delega vi sarebbe la necessità di rinviare il tutto al successivo decreto delegato. Basterebbe, invece, che, nella versione finale del decreto legislativo, venisse  esteso anche ai pubblici dipendenti quanto sancito nel secondo comma dell’articolo 3 (recante la materia del licenziamento disciplinare).

Al di là di come sarà affrontato (e risolto?) tale problema, rimane predominante la domanda: serviranno i provvedimenti del Governo a ridare fiato all’occupazione? Si direbbe di no, considerando le previsioni dell’Istat secondo le quali la modesta inversione di tendenza della crescita non darà luogo ad un miglioramento dei tassi di disoccupazione.

Vien fatto di pensare, allora, che neppure gli incentivi previsti dalla legge di stabilità (già si lamenta una partenza incerta in considerazione del mancato allineamento con l’entrata in vigore del contratto di nuovo conio) serviranno a compensare – sul lato delle nuove assunzioni – l’inevitabile redde rationem, sullo scenario del mercato del lavoro, con le centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dai meandri degli ammortizzatori sociali, quando le imprese, proprio per avere la possibilità di ripartire, si troveranno nell’esigenza di chiudere i conti con i possibili esuberi.

Ecco perché sarà forte la pressione ad invocare il soccorso del sistema pensionistico, assecondando le spinte a far saltare i vincoli della riforma Fornero, anziché sfruttare al massimo le nuove potenzialità – ancorché modeste – individuate nel campo delle politiche attive. Il Governo Renzi, fino ad ora, non ha prestato ascolto alle tiritere degli esodati (un tema ignorato, per fortuna, anche nel saluto di Giorgio Napolitano, diversamente di quanto accaduto in altre circostanze).

Ma nella legge di stabilità si sono notati alcuni primi sgretolamenti dell’impianto costruito dal Governo Monti, soprattutto per quanto riguarda l’età pensionabile. Un’ultima considerazione riguarda le politiche del lavoro: guai a ridimensionare la riforma del contratto a termine ‘’acausale’’. Siamo pronti a scommettere che le imprese continueranno a privilegiare questo strumento, anche se più oneroso e privo di incentivi. Ma per tre anni i datori non corrono il rischio di essere chiamati in giudizio.

Dipendenti pubblici, ecco norme e frottole su licenziamenti e assenteismo

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