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Avevano già vinto, ma oggi volevano stravincere. E ora il rischio è che ci sia l’impressione che abbiano perso.

Chissà se è stata una strategia azzeccata quella degli esponenti di Ncd sui decreti attuativi del Jobs Act approvati oggi dal consiglio dei ministri.

In particolare con l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, gli alfaniani avevano avanzato due richieste.

La prima: opting out. Ovvero: la possibilità per l’azienda di optare per l’indennizzo anche in caso di licenziamento illegittimo di natura disciplinare, con una quota di risarcimento che oscilla tra 30 e 36 mensilità.

La seconda richiesta: prevedere il licenziamento per scarso rendimento.

Alla fine, dopo pensieri e ripensamenti, Renzi non ha dato corso alle aspettative del Nuovo Centrodestra, suscitando i festeggiamenti dell’ala sinistra del Pd, a partire da un altro ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano.

Da qui l’impressione – nonostante un comunicato favorevole ma agrodolce di Sacconi sull’esito del consiglio dei ministri – di una vittoria di Damiano e di Roberto Speranza. In verità, come è successo per l’impianto del Jobs Act, c’è stato un pareggio concordato tra Pd e Ncd.

Ma la vera connotazione politico-culturale del disegno di legge e dei decreti legge, come evidenziato da tempo sia da Emmanuele Massagli del centro studi Adapt e da Giuliano Cazzola, è che l’articolo 18 di fatto (e la sostanza in questi casi è più rilevante della forma) è stato rottamato ideologicamente da Renzi e non è più un tabù. Visto che per i licenziamenti economici non si prevede più il reintegro ma un indennizzo monetario.

Il resto è chiacchiericcio di fondo.

Chi ha vinto davvero sull'articolo 18 alla Renzi

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