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Gli economisti Tito Boeri e Luigi Guiso hanno scritto su La Voce.info che “le fondazioni, sorrette da politici locali senza scrupoli, stanno nuovamente ostacolando gli aumenti di capitale degli istituti creditizi finiti nell’occhio del ciclone dopo gli stress test realizzati dalla Bce. A riprova del fatto che sono diventate il principale fattore di instabilità della realtà bancaria”. Nella quale, ha rilevato recentemente il Fondo monetario internazionale, essi esercitano un peso rilevante. Grazie a un legame profondo e antico con gli organi erogatori di prestiti.

Vendere entro 6 anni le partecipazioni bancarie delle fondazioni

Relazione che vuole sciogliere la proposta di legge messa a punto dal parlamentare di Scelta Civica Mariano Rabino.

L’iniziativa, che prevede l’obbligo di vendita entro 6 anni delle azioni bancarie in possesso delle fondazioni, punta a “separare nettamente economia e partiti, restituire alla politica il ruolo nobile che la partitocrazia le ha scippato, rimuovere il conflitto d’interessi tra l’esercizio dell’attività  finanziaria e i compiti di governo, liberare la democrazia dal soffocante intreccio tra oligarchie”.

Frutto della campagna “Sbanchiamoli. Fuori i partiti dalle banche. Credito a chi merita” promossa dai Radicali Italiani, il progetto verrà presentato giovedì 18 dicembre nella Sala stampa di Montecitorio dallo stesso Rabino, dal tesoriere della formazione di Torre Argentina Valerio Federico, dagli studiosi Tito Boeri e Alessandro De Nicola.

Un percorso mai completato

Nella relazione che accompagna il testo normativo, il rappresentante di Sc fa una cronistoria dei tentativi per superare il regime pubblicistico delle banche italiane a partire dal 1990.

La Legge Amato, che trasformava le banche pubbliche in società per azioni escludendo lo Stato da una gestione diretta ed esclusiva. E creava le fondazioni che, conservando il controllo sugli istituti creditizi di riferimento, avrebbero realizzato gli scopi istituzionali di rilevanza sociale: ricerca scientifica, arte, istruzione, sanità.

La Legge Ciampi del 1998, che conferì a tali organi autonomia statutaria e gestionale, oltre che la natura giuridica di enti privati attivi nel no profit. Regime che consentì numerose agevolazioni fiscali, vincolate a un paletto ben preciso: uscire entro un termine massimo di 4 anni dal 51 per cento del capitale delle banche.

La Legge Tremonti del 2001, che fissò lo sviluppo del territorio come priorità nella scelta degli interventi finanziari delle fondazioni. E che per tale ragione favorì la rappresentanza prevalente nei loro organi di indirizzo di figure indicate da Regioni, Province e Comuni. Contemporaneamente veniva stabilito che le partecipazioni nelle banche avrebbero dovute essere vendute integralmente entro giugno 2006.

Un capitalismo feudale

Un obiettivo rivelatosi illusorio. E così, spiega il parlamentare, realtà concepite per affrancare l’attività creditizia dall’influenza della politica, si sono trasformate in un intralcio al corretto funzionamento del circuito economico-finanziario nazionale.

“Il controllo delle banche e il potere di determinarne le decisioni – scrive Rabino – costituiscono uno straordinario strumento di consenso. Le fondazioni, mantenendo uno stretto legame con le banche, rappresentano uno degli anelli di congiunzione tra la politica e la finanza”.

Anziché promuovere libero mercato, talento, stima guadagnata con i fatti, competitività internazionale degli istituti creditizi, “ha vinto ancora una volta il capitalismo italiano feudale e inquinato che rende labili i confini tra controllore e controllato. Assetto che, grazie alle molteplici partecipazioni azionarie possedute da talune fondazioni, porta sempre gli stessi protagonisti a dettare legge. Conservando rendite monopolistiche e una rete di relazioni consolidate che proteggono gli ‘insider’ dagli ‘outsider’”.

Le conseguenze economiche

E non è tutto. A giudizio del promotore della proposta di legge, non soltanto la politica cacciata dalla porta delle banche nel corso degli anni Novanta è rientrata dalla finestra nella veste delle amministrazioni territoriali.

Ma a risentirne è stato anche lo stato di salute patrimoniale di “banche incapaci di creare valore economico e di compiere scelte vantaggiose per i risparmiatori. Carenze di cui è responsabile un management spesso scelto con il voto cruciale dei rappresentanti delle fondazioni”.

Un intreccio contraddittorio

Uno sbocco inevitabile per l’esponente di Scelta Civica: “Non è pensabile che un soggetto detentore di quote importanti di una banca resti indifferente alla sua gestione”. Ma poiché la filosofia che dovrebbe guidare l’operato delle fondazioni è nettamente differente rispetto a quella economica che ispira le strategie degli istituti creditizi, è urgente separare le due realtà.

Tanto più che gran parte dei manager delle fondazioni è individuato e nominato dalla politica locale. Per cui “non è accettabile che una persona indicata dai partiti di un territorio suggerisca a una banca con respiro internazionale di avere un occhio di riguardo per le imprese della ‘sua’ area geografica”.

Chi vuole fare la guerra alle fondazioni bancarie

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