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Business as usual. Le prime pagine dei giornali sauditi non dedicano neppure una breve o un richiamo al terremoto provocato sui mercati finanziari dalla decisione del Regno di non ridurre la produzione giornaliera di greggio. Il crollo del Brent, calato del 40% dai prezzi dello scorso giugno, non preoccupa Riyadh. I media riportano, invece, con grande risalto il fatto che in un solo mese le riserve valutarie del paese sono cresciute del 13% raggiungendo la cifra record di 900 miliardi di Riyals, circa 200 miliardi di euro. Una montagna di cash a disposizione delle autorità saudite, uno stato che non sa cosa significa emettere titoli di stato per finanziare a debito la spesa pubblica.

A Riyadh i ristoranti sono pieni e il traffico caotico; il pil è previsto in crescita del 4% mentre l’inflazione continua a calare ed è ora al 2,6%. Il saldo attivo della bilancia commerciale è vicino al 18% del Pil annuo, tante risorse da mettere sul tavolo della geopolitica per dare al regno saudita quel ruolo di potenza non soltanto regionale. Perché la guerra del prezzo del barile significa soprattutto un messaggio chiaro che Riyadh invia al resto del mondo: siamo noi il punto di riferimento delle politiche energetiche mondiali. Saltata la Libia, fuori gioco il greggio dell’Iraq anche a causa dell’IS, in crisi Nigeria e Venezuela, è la sola Arabia Saudita a tirare le fila e a poter fare, soprattutto grazie alle enormi riserve pubbliche di cui dispone, il trend setter mondiale dei prezzi dell’energia.

E Riyadh ha deciso, come sempre accade in un mercato oligopolistico o non competitivo nel quale l’impresa leader gioca un ruolo speciale, di fissare lei il prezzo del barile. Di farlo scendere a livelli economicamente fastidiosi per i russi e gli stessi iraniani, ma a un valore molto vantaggioso, invece, per le economie europee in difficoltà e per la stessa Cina. Se gli Usa usano il dollaro per fare geopolitica, la Germania le esportazioni e la Cina la capacità di essere la manifattura del mondo, l’Arabia Saudita ha fatto capire che il petrolio e’ la sua arma di politica internazionale.

In questo modo i sauditi segnalano di non partecipare al G20 solo per fare numero o presenza, più puntualmente chiariscono la loro capacità autonoma di decidere una strategia capace di produrre effetti globali. In questo modo Riyadh ribadisce come il mondo contemporaneo non sia, neppure lontanamente, riconducibile a un semplice confronto tra due superpotenze come è stato durante la guerra fredda e che il gioco è davvero multipolare. Considerare i wallabiti come una semplice appendice territoriale degli Usa nel Golfo è oggi la più banale delle analisi che si possono produrre. Lo testimonia la calma ed il distacco con i quali i sauditi vivono un passaggio raccontato come un vero e proprio terremoto economico nel resto del mondo.A Riyadh, dove anche la borsa è rimbalzata dell’1,1%, si parla soprattutto di investimenti e di futuro e si festeggia il nuovo record dei prezzi degli immobili residenziali.

Vi spiego perché la guerra del barile non preoccupa i sauditi

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