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Grazie all’autorizzazione del Gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Mauro Mellini apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

La storia dell’ultima nomina per elezioni del Parlamento alla Corte Costituzionale, con la scelta per stanchezza della Sciarra e con l’altro seggio tuttora vacante, impone qualche riflessione, certo assai poco gradevole, sulla storia e la sorte della Corte, il cui declino è tale che neppure una condanna renziana alla rottamazione potrebbe risultare di più nero pronostico per tale istituzione. La Corte fu concepita dai Costituenti come l’organismo “di chiusura» della volta dell’edificio di una costituzione “rigida», carattere che avrebbe dovuto garantire da scivolate autoritarie e da occupazioni monocolori del potere, che l’affievolita fiducia nelle istituzioni parlamentari lasciava intravedere come sempre incombenti dopo l’esperienza del fascismo. La Costituzione del 1948 meno si preoccupò dell’equilibrio dei poteri che dell’equilibrio del potere, che, di fatto, nel meccanismo istituzionale risultò farraginoso e segnato da una limitata fiducia nelle scelte elettorali.

La Corte Costituzionale tardò otto anni (dal 1948 al 1956) ad essere realizzata. Anch’essa subì il ritardo generale nell’attuazione della Costituzione, che seguì la fine dell’equilibrismo delle forze politiche che aveva contrassegnato il lavoro della Costituente.

La prima Costituzione della Corte fu in realtà prestigiosa. A parte qualche riempitivo imposto da storie di correnti di partiti, i nomi dei primi Giudici delle leggi apparvero veramente adeguate al ruolo che la Costituzione augurava al muovo organismo. Basti pensare, oltre ad Enrico De Nicola, che ne fu il primo Presidente, a Costantino Mortati, a Tomaso Perassi ed a Gaspare Ambrosini.

Ma non si trattò solo di prestigio e di valori dei suoi componenti. L’organizzazione della Corte, con le ordinanze relative al suo funzionamento, le prassi subito instaurate, dovute soprattutto all’energia ed all’impegno di De Nicola, furono tali da assicurare per anni un funzionamento esemplare della Corte.

Questa riuscì a svolgere un ruolo di adeguamento dell’ordinamento al nuovo assetto costituzionale che il potere legislativo, malgrado le specifiche prescrizioni contenute nelle norme transitorie della Costituzione, non era riuscito a svolgere. Questa fase felice della Corte è durata molti anni. Il declino è cominciato, in modo analogo a ciò che si era verificato per la giustizia, per così dire, ordinaria, per l’accumularsi di un arretrato non eliminabile facilmente, causa, anzitutto, di una assai minor cura nelle redazione delle sentenze. Inoltre, l’avvicendamento di nuovi giudici sia di nomina parlamentare, che presidenziale o da parte delle Magistrature superiori ha portato ad un progressivo indebolimento qualitativo.

Le Magistrature hanno cominciato a giuocarsi, le nomine di loro spettanza, sul tavolo delle partite tra le correnti e su quello dei posti da spartirsi. I presidenti della Repubblica spesso si sono mostrati disorientati o troppo pregiudizialmente orientati nelle loro scelte. Il peggio è accaduto con le nomine parlamentari, utilizzate per assicurare dei premi alla carriera ad uomini politici, come tali, sul binario morto. Lo scadimento qualitativo è stato evidente e progressivo. Ad esso ha fatto riscontro un aumento del potere (anzi l’emergere di un potere) degli assistenti addetti (per lo più magistrati ordinari) ai singoli giudici che in certi casi ne divenivano completamente dipendenti. L’Anm ha così messo le mani sulla Corte Costituzionale. Riunioni dei magistrati assistenti sono diventate le vere sedi di scelte importanti, poi formalmente adottate dalla Corte con le sentenze.

Intanto, per il peso sempre più rilevante delle sentenze da redigere, si è abbandonato il sistema della «doppia Camera di Consiglio» che era stata introdotta da De Nicola. La Corte si riuniva per decidere sui ricorsi. Poi una seconda volta per esaminare il testo della motivazione redatto dal relatore, apportandovi, se del caso, modifiche e correzioni. Ora la Camera di Consiglio si fa (pare sempre più frettolosamente) solo per deliberare il dispositivo. La motivazione dovrebbe rispecchiare le opinioni espresse in quella sede dalla maggioranza. Ma non è detto che ciò avvenga sempre. Se si ha presente la rilevanza, ad esempio, delle condizioni con le quali è riconosciuta la costituzionalità di una legge, ci si rende conto che con il nuovo sistema il relatore ed il suo assistente, specie se intraprendente e ben supportato dal punto di vista associativo, acquista un potere enorme.

A questo scadimento si aggiunge oggi quello conseguente ad una poco esaltante prassi, con la quale i Giudici Costituzionali sembra si siano accordati per assicurarsi reciprocamente una sorta di Legge Breganze, per la quale tutti, nell’imminenza della scadenza del mandato, sono nominati presidenti della Corte, così da fruire del relativo trattamento di quiescenza maggiorato.

C’è, nei confronti della Consulta, una sorta di indifferenza che pesa più delle critiche più aspre e pesanti. Intanto gli intrecci tra nomine, sentenze, innovazioni legislative, progetti di riforme si fanno sempre più fitti e meschini. Ciò rispecchia lo scollamento che è in atto in tutto l’impianto istituzionale. L’abolizione del Senato rende, poi, inconcepibile il sistema di elezione dei giudici oggi vigente e lo stesso ruolo della Corte. Siamo, si direbbe, agli sgoccioli. Ma il peggio, in questo nostro Paese, sembra disporre di riserve inesauribili.

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