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C’era un tempo in cui Matteo Renzi prometteva la realizzazione in tempi record di un programma vasto di riforme radicali. Rivolgendosi direttamente all’opinione pubblica e al “popolo delle primarie”. E promuovendo un’offensiva culturale e mediatica contro le oligarchie di partito e l’apparato del Pd, le liturgie logoranti dei governi di coalizione, le corporazioni burocratiche, le organizzazioni sindacali, l’Europa “egemonizzata dai burocrati”.

La metamorfosi del premier

La strategia promossa dal Presidente del Consiglio con piglio garibaldino ha da tempo cambiato registro. La sfida a viso aperto ai “poteri conservatori” che bloccano i tentativi di rinnovamento del nostro Paese ha lasciato il campo a una politica più complessa, ricca di chiaroscuri, attenta al compromesso e alla mediazione.

Forse l’ex primo cittadino di Firenze ha compreso che la tecnica più efficace per vincere i molteplici ostacoli al percorso innovatore è coinvolgere i propri avversari nel confronto sui temi caldi dell’agenda pubblica. Riconoscendo le loro ragioni e rispondendo parzialmente alle loro richieste.

Sarà la storia a dimostrare se si tratta di concessioni tattiche. Sta di fatto che i passi indietro compiuti dall’ex fautore della Rottamazione su diversi fronti di iniziativa hanno annacquato e reso più opaca la forza dirompente dei progetti originari.

La ricucitura dello strappo con la minoranza Pd

La versione iniziale della legge delega di riforma del lavoro, concordata con il Nuovo Centro-destra e fortemente marcata in senso liberale-liberista nell’archiviazione dell’Articolo 18, ha subito una correzione molto incisiva.

Per ricucire lo strappo con gran parte della minoranza di sinistra del PD, Renzi ha accettato di ripristinare le regole risalenti al 1970 sul reintegro automatico per i lavoratori licenziati senza giusta causa per ragioni disciplinari. Mantenendo la previsione di un robusto risarcimento economico soltanto per la rottura dei contratti provocata da motivi economici e da crisi aziendali.

Una riforma a metà?

Un gesto finalizzato a riconquistare la componente del Nazareno più legata al socialismo ortodosso e tentata dall’adesione allo sciopero generale promosso dalla CGIL contro il Jobs Act.

Ma se la mina rappresentata dal consenso politico alla manifestazione del sindacato di Corso d’Italia appare per ora disinnescata, resta evanescente – secondo molti osservatori – l’innovazione del modello italiano di ammortizzatori sociali per orientarli verso il reinserimento occupazionale e il Welfare to Work. Anche per l’esiguità delle risorse stanziate.

Il successo tra gli imprenditori

Altro punto che ha reso turbolento il conflitto interno al Nazareno fino a poche settimane fa concerne la forma-partito e l’adesione di militanti e iscritti. Crollati nel numero, hanno denunciato i fautori di un PD pesante, radicato nel territorio e tra i corpi sociali, fondato sul tesseramento.

Argomentazioni cui Renzi ha contrapposto le cifre lusinghiere dei partecipanti alle consultazioni primarie e dei votanti del Partito democratico nelle recenti elezioni europee.

Poi, in piena coerenza con la visione di forza politica leggera, inclusiva, a vocazione maggioritaria, ha incoraggiato l’adesione di imprenditori e manager alla Leopolda di Firenze e alle cene per l’auto-finanziamento. Appuntamenti di sapore nordamericano che si sono rivelati proficui per la visibilità e le casse del Nazareno.

La marcia indietro sull’Italicum

Terreno nel quale le giravolte del Presidente del Consiglio hanno riservato sorprese e colpi di scena è quella della legge elettorale. Concepito all’inizio in un orizzonte bipartitico di stampo spagnolo o britannico nella cornice di una campagna contro il potere di veto e ricatto dei partiti medio-piccoli, il meccanismo di voto messo a punto dal premier e dal suo entourage ha conosciuto metamorfosi significative.

Le circoscrizioni plurinominali molto ridotte, che avrebbero mandato in Parlamento una manciata di rappresentanti e premiato le formazioni più grandi oltre alle forze con forte radicamento territoriale, si sono allargate sempre più. Garantendo rappresentanza istituzionale proprio ai gruppi intermedi come gli alleati di governo del Nuovo Centro-destra.

Galassia centrista che, assieme a Sinistra e Libertà e Fratelli d’Italia, è riuscita a strappare la riduzione della soglia di sbarramento al 3 per cento e la facoltà per i capilista di presentarsi in più collegi. Così i loro leader potranno esercitare un richiamo efficace per i cittadini di molte regioni, rinviando alla fase post-voto la scelta del luogo di elezione.

Trappola elettorale per Silvio Berlusconi 

Le concessioni riconosciute dal premier nel campo della legge elettorale avevano fatto scricchiolare il Patto del Nazareno firmato con Silvio Berlusconi.

Restio ad accettare di buon grado l’abbassamento dell’asticella di voti per entrare nella Camera dei deputati – un premio evidente per i “fratelli separati” di NCD – e l’attribuzione del premio di governabilità alla lista vincente anziché alla coalizione più votata.

Marchingegno che nell’attuale quadro politico creerebbe un’egemonia indiscussa del PD, con Forza Italia e il centro-destra frammentato relegati in un ruolo marginale e i Cinque Stelle nella veste di antagonista perdente in ogni tornata elettorale.

Nessuna rottura del Patto del Nazareno

Tuttavia l’ex Cavaliere non coltiva nessuna intenzione di rompere un accordo che ne ha favorito la sopravvivenza politica.

Forte della legittimazione fornita da Renzi, l’ex capo del governo finirà per recepire i cambiamenti apportati all’Italicum compresa la reintroduzione delle preferenze per scegliere i candidati successivi ai capilista.

L’aspirazione che lo anima è accreditarsi come “padre responsabile” del percorso di riforma istituzionale e giocare un ruolo centrale nella partita per l’elezione del futuro Presidente della Repubblica.

Il rospo ingoiato nel confronto con la Ue

Promesse di rottamazione e polemiche al vetriolo contro i “burocrati di Bruxelles” alternate a clamorose marce indietro hanno costellato il confronto del premier con l’Unione Europea riguardo la Legge di stabilità.

Testo bacchettato da una lettera repentina della Commissione UE preoccupata per il rispetto dei vincoli comunitari di bilancio.

E che Palazzo Chigi e Tesoro sono stati costretti a correggere in senso restrittivo – riducendo i margini di flessibilità nel rapporto deficit-PIL – per evitare di incorrere negli strali del supervisore degli Affari economici dell’Euro-zona Jyrki Katainen. Attenuando così il respiro espansivo del taglio delle tasse su imprese e lavoro.

La mediazione per la Farnesina

Analoga capacità Renzi ha dovuto dimostrare nella scelta del nuovo responsabile degli Esteri al posto di Federica Mogherini. Ruolo per il quale il premier aveva in mente la giovane esponente Lia Quartapelle.

Ma, di fronte alla fermezza del Capo dello Stato per un nome di maggiore esperienza come Marta Dassù o Lapo Pistelli, l’ex sindaco di Firenze ha optato per una figura di mediazione quale Paolo Gentiloni.

Che con il premier condivide la visione anglosassone del Partito democratico, un orientamento liberale in politica economica, il valore delle relazioni euro-atlantiche, l’amicizia con lo Stato di Israele. E una comune militanza nella Margherita.

La risposta è nelle origini Dc

Una formazione che affondava le radici nelle culture politiche riformiste della prima Repubblica. Laiche e soprattutto cattoliche.

Non è un mistero che l’impronta democratico-cristiana abbia connotato la formazione familiare e giovanile del premier. Frequentemente accostato a protagonisti di spicco della DC a partire da Amintore Fanfani.

Ed è forse in simili radici culturali che va ricercata l’attitudine al compromesso di un abile giocatore di scacchi come Renzi.

Ecco come Renzi resuscita mediazioni e compromessi

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