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La tragica cronaca di queste ultime settimane in Israele, Iraq, Siria ed Ucraina segna il ritorno della geopolitica sul palcoscenico della politica internazionale. È un ritorno clamoroso dopo che i 20 anni successivi alla caduta del Muro di Berlino sono stati dominati dall’idealistica dottrina dell’esportazione del modello di democrazia occidentale in giro per il mondo, a prescindere dalle peculiarità storiche, religiose e geografiche dei contesti divenuti oggetto di una sorta di globalizzazione della politica, con l’assimilazione del concetto di democrazia rappresentativa ad un qualsiasi prodotto di massa da vendere su tutti i mercati mondiali senza alcun adattamento a gusti e tradizioni locali.

La realtà di questi mesi è molto diversa: la geografia e la storia contano ed eccome sullo scenario globale. È il ritorno della geopolitica, la disciplina che ebbe in Halford MacKinder, James Fairgrieve e Samuel Cohen alcuni tra i suoi massimi interpreti e che fu rapidamente marginalizzata ed archiviata nel corso della seconda metà del secolo scorso, a causa tanto della strumentalizzazione che ne fece il Terzo Reich nella dottrina dello spazio vitale che dell’illusoria convinzione che quanto funzionava in Occidente potesse essere inoculato in altri contesti.

Il nostro Paese è tra quelli che, sullo scacchiere europeo, dovrebbe essere maggiormente interessato al ritorno della geopolitica. In fondo la storia della nostra rinascita economica dopo il secondo conflitto mondiale è strettamente legata all’interesse strategico derivante dal posizionamento geografico della nostra penisola, in mezzo al Mediterraneo ed alle porte del Patto di Varsavia. Da questo posizionamento geografico sono derivati aiuti economici e protezione militare nonché rilevanza della nostra politica nei tavoli che contavano.

Quanto sta avvenendo tra Medio Oriente, dove è in corso un tentativo di sovvertimento dei confini nazionali disegnati dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e la caduta dell’Impero Ottomano e il ritorno dell’espansionismo russo in quella zona che MacKinder chiamava Heartland (cioè la parte centrale dell’Eurasia) rischia di tornare a valorizzare la posizione geografica del nostro Paese in rapporto ai cambiamenti degli equilibri in atto.

In questo senso la totale indifferenza della nostra classe politica nei confronti di quanto sta avvenendo è la migliore allegoria di un’incapacità di leggere il corso della Storia e coglierne le opportunità per il nostro Paese. Mentre il dibattito politico Italiano è focalizzato su un’inutile riforma costituzionale, volta a pitturare di cambiamento la conservazione, e sulla presunta rinascita politica di un signore di 78 anni, che potrà essere assolto dai giudici ma non lo può essere dall’anagrafe, mentre Renzi focalizza la sua azione diplomatica su garantire alla Mogherini la guida della politica estera dell’Unione Europea (andando contro i veti polacchi e dimostrando di non capirne il crescente peso sugli equilibri a Bruxelles) e pensa che basti chiedere flessibilità alla Merkel per fare tornare la crescita nel nostro Paese, per l’ennesima volta il nostro Paese rischia di perdere una grande occasione.

Se da un lato la portata dei cambiamenti sullo scacchiere europeo e medio orientale è tale da richiedere sempre di più un coordinamento della risposta da parte dei Paesi membri dell’Unione Europea, dall’altro il posizionamento del nostro Paese può essere sempre di più chiave sia per quanto riguarda il controllo dei flussi migratori che sono destinati a crescere, che per quanto riguarda la prevenzione della possibile minaccia terroristica portato dei piani espansionistici del Califfato di Isis che per quanto riguarda la diversificazione delle fonti di approvvigionamento di energia, necessaria a fronte dell’utilizzo del gas come leva di pressione politica da parte di Putin sugli stati vicini (rafforzata dall’accordo di Gazprom con la Repubblica Popolare Cinese che consente sostegno finanziario al colosso russo anche in caso di interruzione delle furniture ai clienti europei).

Mentre nell’area del Golfo del Messico aumentano gli investimenti per impianti di gassificazione finalizzati ad esportare shale gas, facendo leva anche sull’allentamento del vincoli all’esportazione dell’energia prodotta negli USA, andrebbero immediatamente accellerati i piani relativi alla costruzione di rigassificatori (dopo l’occasione persa a Taranto e Trieste). Contemporaneamente è necessario focalizzarsi sui piani di integrazione delle reti europee al fine di collegare il nostro Paese con il rigassificatori europei sottoutilizzati. Renzi invece di ostinarsi con la Mogherini dovrebbe dialogare con i membri ad Est dell’Unione Europea, maggiormente preoccupati dalle politiche energetiche di Putin ed in particolare modo con la Polonia, la cui economia cresce a tassi di crescita sconosciuti nel resto dell’Unione.

Viviamo in un’epoca di cambiamenti impetuosi e da ogni cambiamento risultano opportunità. Invece di andare a chiedere flessibilità e citare Telemaco, Renzi farebbe meglio a fare leva su come il posizionamento geografico del nostro Paese può essere fondamentale per gli interessi strategici dell’Europa andando contro i “professionisti del no” ad ogni investimento infrastrutturale. Ma questo richiede una statura da statista che purtroppo il nostro premier ad oggi ha dimostrato di non avere.

Israele, Irak e Ucraina, il ritorno della geopolitica è una salutare sfida per Renzi

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