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Al TG3 delle 14,20 la giornalista Maria Cuffaro si è chiesta perché Barack Obama abbia perso le elezioni di medio termine, visto che ha mantenuto tutte le promesse della campagna elettorale. Appunto.

La clamorosa sconfitta del Partito Democratico ha infatti molti genitori, tanti quante sono le iniziative politiche radicali di Obama; eppure un nome li riassume tutti: “Obamacare”, la famosa riforma sanitaria che è peggio che andare di notte. Ne sono convinti milioni e milioni di americani, oggi soprattutto la maggioranza di quelli che votano.

La riforma sanitaria è tante e molte cose, anzitutto un malloppo di più di 10mila pagine (e altre “cadette”) che nessuno può dire di conoscere davvero. Ma tre cose dell’Obamacare sono oggi per gli americani chiare e distinte: costa ai contribuenti parecchi soldi in più sotto forma di nuove tasse salate; impenna la disoccupazione perché spinge a chiudere i battenti le aziende con più di 50 dipendenti (tantissime), quelle a cui per legge viene imposto di passare gratis la mutua ai dipendenti; e sancisce una pesante quanto inedita interferenza dello Stato nell’economia. Più una quarta cosa che per la sua gravità vale la pena di considerare a sé: impone che l’aborto, la contraccezione e la sterilizzazione vengano passati ai lavoratori come fossero un canchet e sempre a spese dei datori di lavoro, tra l’altro equiparando così il controllo delle nascite alla cura delle malattie ovvero la maternità al cancro, la gravidanza all’ictus e la fertilità all’Alzheimer.

Ebbene gli americani l’“Obamacare” (che è la peggiore di tutte le politiche di Obama e assieme il simbolo del radicalismo del Partito Democratico) l’hanno seccamente bocciato. Il presidente in carica e il suo partito ci hanno investito tutto, sostanze e immagine, per anni, e hanno sonoramente perso. Hanno per anni ottenuto sì diverse vittorie, nei tribunali e in Parlamento, ma ora è chiarissimo che la guerra finale l’hanno persa. Il voto del 4 novembre ha decretato per il Congresso federale equilibri numerici che non si vedevano da decenni, per di più a favore dei Repubblicani mentre alla Casa Bianca siede un Democratico (altra cosa rara). Più rovinosa di così la sconfitta di Obama non poteva essere, più netto di così il rifiuto della sua linea politica (riassunta dell’“Obamacare”) non poteva essere. Da tempo non manca che definisce apertamente Obama un presidente post-americano (per primi lo hanno fatto l’analista di politica estera Pamela Geller e l’ex ambasciatore all’ONU John R. Bolton) volendo dire che Obama non è soltanto un cattivo presidente americano (come Bill Clinton o John F. Kennedy) ma soprattutto il primo presidente che degli Stati Uniti ha un’idea “sovversiva”. Se questo è vero (e in buona parte lo è, in maniera dimostrabile), significa che il popolo americano il 4 novembre gli ha voltato completamente le spalle, ricusando il suo progetto post-americano come irricevibile.

La centralità dell’“Obamacare”, realtà e simbolo, nel voto del 4 novembre dice poi un’altra verità importante sugli Stati Uniti. Dice che la bocciatura della linea post-americana pervicacemente perseguita dalla Casa Bianca e dai Democratici è di natura duplice: economica e morale. Strettamente assieme. Non la si può definire solamente una bocciatura di tipo morale poiché alcuni referendum su questioni “eticamente sensibili” sono stati battuti (l’esempio eminente è il tentativo di emendare la Costituzione del North Dakota con il principio che la vita umana inizia dal concepimento, sconfitto), ma non si può affatto dimenticare che l’insostenibile pesantezza economica della riforma sanitaria è inscindibile dalla sua palese immoralità quanto ai “princìpi non negoziabili”, fosse anche solo nella forma minimalista (ma non banale) di quel contribuente-elettore che, qualsiasi cosa egli pensi dell’aborto o della contraccezione, fatica a capire come mai il costo dei preservativi o delle operazioni chirurgiche di suoi vicini di casa li dovrebbe sostenere lui sottraendo cibo alla propria famiglia…

Il 4 novembre, cioè, dice al mondo che gli Stati Uniti, pur acciaccati dal susseguirsi vorticoso della battaglie campali di cui si sostanzia la rivoluzione permanente attiva nella società post-moderna (dalle questioni di gender all’eutanasia), ancora ritengono le questioni morali rilevanti per la politica. Sia perché rifiutando la linea Obama rifiutano l’“Obamacare” e rifiutando l’“Obamacare” rifiutano il controllo delle nascite; sia perché rifiutando la linea Obama rifiutano l’“Obamacare” e rifiutando l’“Obamacare” rifiutano lo statalismo che esso impone al Paese come accelerazione post-americana. Per gli americani, infatti, lo statalismo (di qualsiasi tipo) e l’impoverimento delle difese della famiglia che l’ingerenza tassatrice del governo comporta sono questioni eminentemente morali, diversamente ma non meno morali della lotta contro il controllo delle nascite (che appunto è un’altra forma d’ingerenza statalistica).

Gli Stati Uniti si sono svegliati insomma questa mattina scossi, emaciati e feriti dalle mille forme di offesa all’umano (individuale, sociale, politico) che non ha certo inventato la linea Obama ma di cui la linea Obama si è messa a pieno servizio, ma ancora vivi e vegeti, e capaci di una reazione che rimarrà nei libri di storia. Cioè niente affatto post-americani.

Il voto del 4 novembre ha inoltre ribadito per l’ennesima volta la spaccatura esistente nel Paese: dato che ogni due anni il voto per il Congresso (di medio termine o in concomitanza del voto per la Casa Bianca) rinnova per intero la Camera dei deputati, ma solo un terzo (a turno) dei senatori, il fatto che quest’anno non fossero interessati dal voto senatoriale uno Stato ampiamente liberal come la California o il Massachussetts che per primo a legalizzano le “nozze” omosessuali ha decretato il successo della proposta più conservatrice tra quelle in lizza.

Oggi gli Stati Uniti sono due cose: sono, come sempre, culturalmente inclini al conservatorismo e politicamente meglio rappresentati dal Partito Repubblicano. Le due realtà (movimento conservatore e partito) restano sempre diverse, ma dopo il 4 novembre la distanza si è assottigliata. I Repubblicani restano un partito diviso come sempre ma non più fra un’ala liberal e una più conservatrice: i liberal non ci sono (macroscopicamente) più (almeno dal voto di medio termine del 2010) e dentro il partito si stanno scontrando due destre. Una è quella istituzionale, emblematicamente rappresentata dal presidente della Camera John Boehner, l’altra è quella delle “comunità di base” barricadere rappresentata dai “Tea Party”. Andrà come andrà, ma significa che la Sinistra interna è defunta. A mezzo secolo esatto dalla “discesa in campo” di Barry Goldwater (1909-1998), che il lungo cammino dello spostamento a destra di un partito allora molto più “di sinistra” lo innescò, è una considerazione importante.

Il fatto che in certi referendum “eticamente sensibili” i conservatori abbiano perso dice che negli Stati Uniti la battaglia per i “princìpi non negoziabili” non è né facile né risolta; ma il fatto che in Arkansas abbiamo perso tutti i candidati Democratici sostenuti dai Clinton significa che per l’ex First Lady (ed ex Segretario di Stato di Obama) Hillary Clinton la strada per la nomination presidenziale nel 2016 non è (come troppi dicono con faciloneria) in comoda discesa (e per i “princìpi non negoziabili” questa è una notizia ottima). Il che può facilitare le cose ai Repubblicani a patto che anzitutto pensino seriamente alla questione dell’immigrazione: i bianchi americani sono sempre di meno mentre gl’ispanici sempre di più.

Quest’anno gl’ispanici hanno voltato le spalle a Obama, ma per guadagnarne definitivamente il cuore e la mente i Repubblicani dovranno ben governare nei prossimi due anni ma anche ripensare completamente i propri assetti.

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