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“L’Italia si è condannata a restare ferma, cedendo all’esportazione del malcontento fondata sul nulla e alle battaglie di retroguardia. E lo ha fatto perché ha paura di se stessa”. Le parole pronunciate dal direttore di Panorama Giorgio Mulè, nel corso della presentazione all’Hotel Nazionale di Roma della 9ª edizione del Rapporto dell’Osservatorio Media permanente sulla sindrome Nimby, riassumono l’ostacolo più profondo al rilancio infrastrutturale ed economico del nostro paese.

Le manifestazioni più rilevanti della sindrome Nimby

Le resistenze locali alla realizzazione di opere strategiche per l’interesse nazionale in nome dell’intangibilità di un territorio accompagnano la promozione di reti come il gasdotto Trans Adriatic Pipeline e l’Alta velocità ferroviaria nella Val di Susa in Piemonte.

Ma caratterizzano anche esperienze più limitate dal punto di vista geografico come quella paradigmatica vissuta dal primo cittadino di Parma Federico Pizzarotti. Rappresentante di spicco del Movimento Cinque Stelle entrato in polemica con la propria base elettorale a causa della costruzione dell’inceneritore locale.

Le differenze fra Italia e Regno Unito

La sindrome Nimby, spiega il Ceo di Falck Renewables Piero Manzoni, è presente in tutti i paesi occidentali. A mutare è la reazione delle autorità pubbliche, fondamentale per l’attuazione delle opere e per affermare la certezza dei tempi e degli investimenti.

“È per tale ragione che l’azienda attiva nel campo delle energie rinnovabili ha scelto di abbandonare l’Italia trasferendo la propria attività in Gran Bretagna”. Realtà in cui la ricerca del consenso popolare all’infrastruttura avviene prima della sua assegnazione.

E nella quale gli impianti sono spesso di proprietà delle comunità locali, che hanno tutto l’interesse a un ritorno economico degli investimenti messi in cantiere.

Una frontiera delicata

Una prospettiva che nel terreno dello smaltimento delle scorie radioattive deve affiancarsi al rispetto di rigorosi standard di sicurezza. A spiegarne l’importanza è l’amministratore delegato di Sogin Riccardo Casale.

Nel comparto rifiuti complessivamente considerati – oltre 50 milioni di metri cubi annui – l’Italia è certamente in uno stato di emergenza. Mentre il materiale radioattivo prodotto dalle ex centrali nucleari, dalla chimica industriale e da attività bio-medicali ammonta a 100mila metri cubi: “Non è un quadro allarmante, ma rischia di diventarlo visto lo scarso livello di cultura scientifica che connota il nostro paese”.

Un progetto ambizioso

Per tale ragione le istituzioni hanno approntato un piano di deposito unico nazionale per tutte le scorie attualmente collocate in 20 siti temporanei. Luoghi che si avvicinano al termine dell’attività e stanno arrivando a saturazione.

Il problema è il luogo in cui costruire la nuova struttura, che deve rispondere a precisi requisiti ambientali, geofisici, sanitari. Entro il 4 gennaio 2015 Sogin consegnerà all’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale un documento con le zone più adatte. Seguirà una lunga conferenza con tutti i soggetti interessati. E gli spunti che emergeranno nel confronto pubblico verranno utilizzati per l’individuazione di 10 siti sotto rigorosa vigilanza. A quel punto il governo sceglierà il migliore.

L’opera, rimarca il manager dell’azienda pubblica, costerà 1,5 miliardi di euro: “Ma produrrà un ritorno nettamente superiore in termini di occupazione e attrazione di investimenti produttivi, grazie alla creazione di un Parco scientifico-tecnologico”.

Come misurare le reazioni popolari alle opere strategiche?

A verificare in modo tangibile l’intensità della “sindrome Nimby” è Giampaolo Russo, Country manager di TAP: il progetto di canale Trans-Adriatico finalizzato a importare gas naturale dalla regione del Mar Caspio all’Europa.

Lungo circa 870 chilometri, dovrebbe approdare sulla costa italiana per un tratto di oltre 8 chilometri nella provincia di Lecce. È proprio il percorso finale del gasdotto a provocare da tempo aspre contestazioni di una parte della popolazione del Salento, timorosa di effetti nocivi ambientali e turistici.

Convinto che sia giusto coinvolgere gli abitanti di un territorio prima di aprire i cantieri, Russo propone di stabilire regole credibili per misurare l’effettiva adesione o ostilità dei cittadini. E suggerisce di rimodulare il Titolo V della Costituzione per conferire competenze chiare a Stato ed enti locali.

Le ragioni dello stallo

Misure che Gianluca Comin, direttore Relazioni esterne di Enel e professore di Communication strategy all’Università Luiss “Guido Carli”, non ritiene sufficienti per rilanciare le grandi infrastrutture: “Allo stesso modo non basta una corretta informazione né l’abrogazione del potere di sospensiva dei Tribunali amministrativi regionali sulle opere pubbliche”.

Perché molte volte – rileva Comin – la stessa istituzione pubblica che commissiona il progetto non ne è pienamente convinta. Fenomeno cui si aggiunge l’affastellarsi di procedure, passaggi, autorità come rivela l’intreccio perverso tra regole farraginose e malaffare emerso nella vicenda Mose.

Una politica coraggiosa

Per rovesciare la rotta e rompere lo stallo l’ingegnere reputa necessario promuovere un’interlocuzione completa con i territori, a costo di cambiare i progetti in base ai risultati del confronto. Perseguendo la via della più ampia trasparenza riguardo gli effetti dell’infrastruttura.

Ma destra e sinistra, precisa, devono abbandonare il gioco delle parti recitato per troppo tempo, quando hanno preferito rincorrere a corrente alternata le proteste politicamente proficue contro le opere pubbliche.

A suo giudizio, lo spirito energico e dinamico di Matteo Renzi potrebbe restituire alla classe dirigente il coraggio di portare a compimento le reti strategiche. Tenendo fede alle proprie convinzioni, sfidando pregiudizi consolidati nella cittadinanza, agendo controcorrente.

Nimby

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