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Se dovesse essere rappresentato in teatro si potrebbe intitolare il Jobs act Poletti 2.0 ‘’La commedia degli equivoci’’. Tra i protagonisti della vicenda, infatti, vi sono vincitori che non hanno vinto, sconfitti che non hanno perso. Ma non solo.

Vi sono sconfitti che non si sono resi conto di aver vinto e vincitori che non hanno ancora capito di avere perso. E su tutta questa storiaccia italiana pencola un demiurgo – Pier Matteo Renzi Tambroni – che ad un determinato momento (nel nostro caso alla predisposizione dei decreti delegati) scenderà dall’alto della scena (da buon ‘’deus ex machina’’) sostenuto da un verricello e da carrucola (azionata a mano da Giuliano Poletti) e spiegherà a tutti quale sarà la futura disciplina del licenziamento individuale. Ed è in vista di quello che dirà il premier-ragazzino in quel magico momento che, oggi, è in atto un acceso scontro politico, per nulla giustificato da una norma di delega leggera come l’aria, enigmatica come un sciarada, sorniona come un gatto, sibillina come la famosa frase della sacerdotessa (ibis redibis non moriebis in bello) che rifiutandosi di precisare dove fosse riferito il ‘’non’’ (se a ‘’redibis’’ o a ‘’moriebis’’) gettava nello sconforto il soldato che si era rivolto a lei per conoscere il proprio destino.

In sostanza, sia quelli che pensano di aver vinto, sia gli altri che ritengono di essere stati sconfitti (e che hanno votato una fiducia ‘’doppia’’- data la vaghezza delle norme – solo per disciplina di partito) sembrano sicuri di sapere già adesso ciò che dirà il demiurgo nel D Day dei provvedimenti attuativi: dimenticando tutti di avere a che fare con un animale politico, cinico, privo di principi, bugiardo, pronto e disposto – lo abbiamo visto alla prova – a cambiare linea politica in un tempo più breve del battito di ali di una farfalla. Ciò premesso, possiamo passare all’analisi delle posizioni in campo, cominciando dai sedicenti vincitori, ma sconfitti a loro insaputa.

Per non personalizzare la cosa, useremo surrettiziamente le sigle delle forze politiche di appartenenza alla stregua della classica foglia di fico. Il Ncd è soddisfatto del contenuto del maxi-emendamento in cui riconosce, non già una soluzione totalmente condivisibile del problema, ma un terreno più avanzato e garantito all’interno del quale sostenere le proprie convinzioni quando verranno spacchettate le deleghe. E’ riuscito ad impedire la votazione di un testo che raccogliesse le indicazioni scaturite dalla Direzione del Pd che, ad avviso del partito di Alfano, sarebbero state più arretrate, in quanto avrebbero ristretto il perimetro della riforma dell’articolo 18, mentre nella formulazione attuale – sempre secondo gli esponenti di quel partito – sarebbe chiarito che la reintegra resterebbe soltanto nella fattispecie di licenziamento discriminatorio o nullo mentre negli altri casi opererebbe comunque il solo risarcimento.

Poiché non sono degli sciocchi e sanno leggere le carte, sanno benissimo che questa è un’interpretazione precaria; ma sono convinti che, al momento buono, il demiurgo darà una versione a loro favorevole. Bene, auguri. Ma quando mai una qualsiasi formazione di centro destra, tra quelle che si sono succedute nel tempo, ha condiviso la linea per cui quello a tempo indeterminato costituisce la forma ‘’privilegiata’’ di contratto di lavoro e, per questo motivo, deve essere più ‘’conveniente’’ in termini di oneri diretti ed indiretti?

L’Italia è proprio un Paese invertito. Con il maxiemendamento al Jobs act Poletti 2.0, a fronte di una formulazione assolutamente generica della norma di delega in materia di licenziamento individuale, il centro destra rischia di subire una sconfitta storica sulla legge Biagi che potrebbe – sulla base delle pur vaghe norme votate – essere smantellata dai decreti delegati, cosa che non riuscì nemmeno al governo Prodi con Rifondazione comunista in maggioranza e Cesare Damiano al Dicastero Lavoro. Quando Elsa Fornero ci provò di brutto (riuscendoci in larga misura perché anche allora il Pdl privilegiò le modifiche all’articolo 18 che poi non arrivarono come promesse), almeno il centrodestra, accortosi della trappola in cui era finito, diede battaglia in Parlamento e ottenne qualche significativo risultato. Ora, addirittura il Ncd si compiace di quanto potrebbe accadere sotto i suoi occhi attraverso la riproposizione di un antico teorema caro alla sinistra in base al quale – il demiurgo non esita ad affermarlo – se si abolissero (o ‘’si razionalizzassero’’) i contratti atipici si abolirebbe anche il cosiddetto precariato.

E la sinistra? La minoranza del Pd (ad eccezione di Cesare Damiano che ha apprezzato i cambiamenti e si appresta, dalla sua posizione di forza ad apportarne dei nuovi) si contorce le budella sul nulla, visto che dell’articolo 18 non si parla nemmeno nella delega; non si accorge, invece, che è vicina ad ottenere qualcosa che somiglia molto al cosiddetto “contratto unico” (poi divenuto ‘’prevalente’’, poi addirittura ‘’privilegiato’’): una ‘’pensata’’ coniata e a lungo appartenuta a tante ‘’belle menti’’ (con solo due narici) di quell’area politica. Sono loro ad essere (o almeno a poter essere) vincitori a loro insaputa. Anche perché, il provvedimento deve ancora passare dall’esame della Camera, dove al ‘’garzoncello scherzoso’’ Matteo Renzi faranno vedere i sorci verdi. Ecco spiegata, così, la ‘’commedia degli equivoci’’. I veri sconfitti possono cantare vittoria, però, soltanto perché i veri vincitori – per motivi incomprensibili perché tutti declinati nella logica post-comunista – sono tanto sciocchi da non essersene accorti. Per ora, di vincitori veri ce ne è uno solo. Di lui facciamo anche il nome: Pietro Ichino.

Come sugli spalti del Castello di Elsinore se si riesce a scorgere uno spettro tra le nebbie del Jobs act Poletti 2.0, è quello prefigurato per anni nella predicazione messianica del senatore Ichino, il quale, probabilmente, aveva già provveduto a ‘’tradurre in inglese’’ il maxi-emendamento onde permettere al premier di consegnarlo ai partner europei. Non si capisce diversamente come, a Milano, Merkel, Hollande e Barroso abbiano potuto elogiare un provvedimento che non solo non era stato votato, ma neppure conosciuto.

Tutti i trucchi del Jobs Act di Renzi e Poletti

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