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La ritrovata assertività della Russia di Putin ha messo ancora una volta l’Unione europea di fronte all’inadeguatezza della sua azione esterna. La prospettiva di un mondo pacificato in cui il soft power europeo, le sue relazioni economico-commerciali e la sua cooperazione allo sviluppo sostituiscono i principi e i mezzi “tradizionali” della politica estera e di difesa continua a mostrare i propri limiti.

L’Unione in realtà possiede già molti dei requisiti che tradizionalmente rendono rilevante un attore internazionale. Sulla base dell’identità giuridica acquisita con il Trattato di Lisbona, l’Ue è oggi ufficialmente rappresentata presso più di 120 stati e organizzazioni internazionali da una rete di 139 delegazioni e uffici che funzionano ormai come delle vere ambasciate. Questa rete di rappresentanza fa parte del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), il corpo diplomatico dell’Ue creato dal Trattato di Lisbona che assiste l’Alto Rappresentante (quello che i giornalisti chiamano il ministro degli Esteri, carica per la quale è stata di recente nominata l’italiana Federica Mogherini). Per svolgere le proprie funzioni, il Seae è dotato di uno staff di circa 3.500 persone, i cui dirigenti provengono dai servizi diplomatici degli Stati membri, dalla Commissione e dal Segretariato del Consiglio. Lo staff è distribuito fra gli uffici centrali di Bruxelles (circa 1.400 persone) e le delegazioni, presso le quali viene affiancato da oltre 3.500 dipendenti della Commissione distaccati presso le rappresentanze dell’Ue. Il Servizio, infatti, condivide le proprie competenze di gestione dell’azione esterna dell’Unione con il c.d. gruppo Relex della Commissione, che conserva la propria competenza in materie fondamentali come il commercio estero, le politiche di cooperazione e gli aiuti allo sviluppo, l’allargamento. Il Seae può contare su di un budget di circa 500 milioni di euro; una cifra risibile se paragonata agli oltre 36 miliardi di euro stanziati ogni anno dal governo degli Stati Uniti per le attività del Dipartimento di stato o ai 7 miliardi della spesa complessiva per la politica estera degli Stati membri. Nonostante l’esiguità delle risorse, l’Ue conduce oggi in Africa, Asia, Medio Oriente e nei Balcani 17 operazioni di natura civile, militare e mista, in autonomia o in collaborazione con la Nato e altre organizzazioni internazionali.

Ma anche a prescindere dalle risorse, il vincolo più stringente all’azione esterna dell’Ue riguarda la complessità del processo di formazione della sua politica estera in cui le istanze e le modalità “burocratiche” hanno spesso un peso sproporzionato. Basti pensare a cosa abbia prodotto la negoziazione dell’Accordo di Associazione con l’Ucraina da parte della Dg Trade della Commissione, che ha gestito in una prospettiva puramente tecnica – all’insegna del mantra della good governance – capitoli di portata decisamente politica: “cooperazione e convergenza nel campo della politica estera e di sicurezza”; “dialogo politico e riforme”; “giustizia, libertà e sicurezza”.

Solo a patto di superare il suo approccio “burocratico” alla politica estera e di difesa (il che implica anche il passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata in Consiglio) l’Unione europea potrà relazionarsi in maniera incisiva con attori emergenti che – come evidente nel caso della reazione russa alle proteste ucraine con il riconoscimento-lampo della Crimea e la mobilitazione della propria forza militare – fanno invece della combinazione di determinatezza strategica e approcci non convenzionali la chiave della loro affermazione internazionale.

Articolo tratto da Via Sarfatti 25 dell’Università Bocconi di Milano

Tutte le difficoltà burocratiche che incontrerà Mogherini a Bruxelles

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