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Il 18 settembre gli scozzesi dovranno scegliere tra “Better together”, slogan scelto dagli unionisti, o “Utopia for the yes”, l’alternativa indipendentista. Gli indipendentisti, guidati dal primo ministro scozzese Alex Salmond sembrano essere per il momento in leggero vantaggio sui loro avversari; tale risultato ha sorpreso persino lo stesso fronte del sì.

Cosa ci guadagnerebbe la Scozia?

Merito di ciò è una campagna civile nata dal basso, che va avanti da più di 18 mesi e si fonda su tre punti chiave.

1)      La Scozia, ottenuta l’indipendenza, sarebbe più democratica, perché libera dai conservatori.

Il suo nazionalismo nasce proprio in contrapposizione al conservatorismo inglese: essere scozzese spesso vuol dire odiare gli inglesi. La Scozia è diversa dall’Inghilterra perché è orientata a sinistra, tories e inglesi per molti oggi sono sinonimi.

Le ragioni sono da ricercare negli anni della deindustrializzazione. Il declino industriale ha colpito principalmente la terra degli highlander, così i sindacati hanno portato avanti una battaglia per salvare acciaierie e cantieri navali in crisi incontrando l’opposizione della lady di ferro, Margareth Thatcher. Ossia, colei che impose, prima agli scozzesi e solo in un secondo momento agli inglesi, la pool tax (imposta sulle persone), una delle misure più impopolari della storia britannica. Inoltre le politiche conservatrici di quegli anni videro innumerevoli perdite di posti di lavoro per la Scozia.

Da allora la politica scozzese si è spostata a sinistra ed oggi il mito dei tories, antiscozzesi e distruttori di posti di lavoro, è diffuso nell’immaginario collettivo.

2)      Lo Scottish National Party (SNP) promette un paese più equo, libero di poter creare la socialdemocrazia tanto sperata; guarda al modello scandinavo, con servizi pubblici efficienti ai livelli della Svezia.

3)      Il miraggio di una Scozia più ricca ha sedotto migliaia di cittadini.

La principale risorsa economica del paese è il petrolio.

In base della divisione delle acque del mare del Nord per l’industria della pesca – riforma adottata dall’ex premier britannico Tony Blair -, alla Scozia andrebbe circa il 91% dei pozzi petroliferi. La previsione di Salmond è che l’industria petrolifera garantirà alle casse dello stato circa 7 miliardi di sterline all’anno.

Cameron è nei guai

Ciò che ha favorito un’ascesa del fronte indipendentista è stata anche la pessima campagna elettorale gestita dagli unionisti. Con un fronte unionista composto dai tre principali partiti britannici (conservatori, laburisti e liberaldemocratici) che appare invisibile e poco coeso, un leader poco carismatico come Alistair Darling, il quale, piuttosto che presentare un programma solido ha adottato un approccio poco persuasivo volto a screditare le tesi “irrealizzabili” dei separatisti, la battaglia del no sembra essere tutta in salita.

Nè va dimenticato l’errore commesso da David Cameron che, rifiutando un confronto con Salmond, si è mostrato agli occhi dell’opinione pubblica come un leader imbelle e impreparato di fronte all’eventualità di una secessione.

Il governo è pronto a ritenerlo responsabile dell’eventuale perdita della Scozia e a chiedere le sue dimissioni. C’è già chi fa il nome dell’attuale sindaco di Londra, Boris Johnson, come favorito per sostituirlo.

I nodi prima o poi vengono al pettine

Qualora la Scozia decidesse per l’indipendenza i temi da affrontare non sarebbero pochi.

Il governo scozzese si propone di restare unito all’Inghilterra fino al 2016, così da poter trattare tutte le questioni relative all’indipendenza nel giro di 2 anni.

Tema centrale è sicuramente l’unione monetaria. L’SNP si è schierato in favore dell’unione monetaria, mostrandosi propenso a continuare ad usare la sterlina, ma ha trovato l’opposizione dei 3 partiti britannici. A questo punto, diversi sono gli scenari all’orizzonte: continuare ad usare la sterlina britannica senza un’unione monetaria, creare una Banca centrale scozzese e una nuova valuta, o, infine, aderire all’euro.

L’ultima possibilità richiama un’altra questione ancora aperta: aderire o no all’UE?

Per adottare l’euro la Scozia dovrebbe chiaramente diventare membro dell’Unione. Un cammino non facile. Sebbene la maggioranza degli scozzesi si proclami europeista, la scelta spetta ai 28 paesi dell’UE attraverso un voto unanime. Basterebbe un solo voto contrario a bloccarne l’ingresso.

Altro tema e questa volta di interesse internazionale è l’eventuale adesione alla Nato. La Scozia indipendente vuole essere un paese libero dal nucleare; ciò oltre a comportare ingenti costi per la Gran Bretagna, costretta a spostare l’intera flotta nucleare ed a trovare una nuova collocazione, creerebbe anche un motivo di frizione con l’Alleanza atlantica, che non accetterebbe al suo interno un paese che si oppone alle armi nucleari.

Cornamuse e devolution

Il processo di devolution in Gran Bretagna va avanti da anni.

La riforma attuata dal governo whig, guidato da Blair, nel 1998 introdusse importanti novità in tal senso in Galles, Irlanda del Nord e Scozia.

In Scozia la devolution da un lato ha messo alla prova le capacità funzionali di un sistema di governo diverso dal modello inglese: le relazioni tra gli organi (che sono fissate da una legge scritta mentre a Londra si seguono ancora delle convenzioni costituzionali), le modalità di scelta del Primo Ministro, le ipotesi in cui è ammesso lo scioglimento della Camera e infine la legge elettorale.

Dall’altro, la riforma ha dotato il Parlamento scozzese di poteri legislativi primari. Ma nonostante ciò lo Scotland Act del 1998 è comunque una legge ordinaria di Westminster che non può essere modificata dal Parlamento scozzese. Ad esso infatti non è dato ampliare i propri poteri e deve legiferare soltanto nelle materie assegnate. In conclusione ciò che ha suscitato ulteriori malcontenti è la mancanza di autonomia finanziaria del paese, che rende la Scozia praticamente vincolata alla politica fiscale di Londra.

Così mentre Londra prometteva di intensificare in modo graduale la devolution, Edimburgo sottolineava la necessità di una totale autonomia finanziaria e ribadiva la propria volontà indipendentista.

Il referendum è ormai imminente, ciò che è certo è che l’esperienza scozzese potrà rappresentare un modello non solo per il Galles e l’Irlanda del Nord, ma anche per tanti altri focolai separatisti, come Catalogna e Paesi Baschi, che, seduti ai primi banchi, prendono appunti.

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