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Per capitalizzare il risultato ottenuto alle regionali in Abruzzo e conquistare un buon risultato alle Europee, Giorgia Meloni deve “gestire i malumori della coalizione” ma soprattutto tenere la “barra al centro”. Tanto più che, il “buon risultato di Forza Italia può rappresentare un buon trend e tradursi in un’affermazione del Ppe a giugno”. A dirlo nella sua conversazione con Formiche.net è Paolo Macry, professore emerito di Storia contemporanea all’università Federico II di Napoli.

Nuovi attori vecchi, mali verrebbe da dire.

È proprio così. Le dinamiche dei governi di coalizione sono più o meno le stesse che si ripresentano nelle diverse stagioni politiche. Ma il centrodestra, essendo al governo ha più problemi in questo senso rispetto al centrosinistra, benché fino a ora non ci siano stati grandi strappi.

A sinistra c’è più omogeneità?

No, anzi. Però all’opposizione si possono fare alleanze improbabili. Si può dire tutto e il suo contrario. Al governo è diverso.

I “dolori” della Meloni quali sono?

Prima di tutto la gestione dell’alleato Matteo Salvini che continua, benché i risultati siano sempre più risicati, a condurre una campagna elettorale permanente che si accentuerà in vista delle Europee. Il suo tentativo di coprire spazi a destra non sta dando grandi frutti. Ed è per questo che Meloni sempre di più deve valorizzare la componente “centrista”.

Forza Italia con il 13,44% in Abruzzo ha doppiato il Carroccio. Un risultato replicabile?

Non so dire con esattezza se questo potrà diventare un trend virtuoso. Ma c’è questa possibilità, soprattutto perché in Europa gli azzurri appartengono alla famiglia politica del Ppe. Un gruppo che, con ogni probabilità, avrà un peso assolutamente rilevante e che potrà orientare i meccanismi di governance di Bruxelles. Tanto dipenderà anche da quello che succederà agli altri attori del Centro (Azione e Italia Viva).

In termini di agenda di governo, su quali punti deve spendersi maggiormente il premier per evitare l’erosione del consenso?

Fino a ora, considerando anche tutti i vincoli europei, mi pare che il governo abbia mantenuto una coerenza ad esempio nella costruzione della Manovra e nella formulazione della riforma fiscale. Attenzione agli svantaggiati, taglio del cuneo fiscale e “cura” del ceto medio. Per cui su questo non vedo grandi elementi di possibili fratture. Discorso diverso invece è quello che riguarda le riforme istituzionali e la classe dirigente.

Sulle riforme, in particolare su quella del premierato, questo esecutivo punta moltissimo.

Il premierato è una vecchia battaglia identitaria del centrodestra, ma temo che sia un terreno molto rischioso nel quale avventurarsi e francamente non sono certo che il percorso possa portare a buoni esiti. Lo stesso discorso vale per l’autonomia differenziata. Fermo rimanendo che, su entrambe le riforme, c’è una forte contrapposizione di matrice ideologica che non aiuta a trattare le questioni nel merito.

Arriviamo al tema, cruciale, della classe dirigente.

Meloni ha un grosso problema sotto questo profilo. Peraltro molti intellettuali di vaglia, di area – mi viene in mente, su tutti, Marcello Veneziani – non sono stati particolarmente coinvolti. Quasi che ci fosse un senso di pudore o vergogna delle proprie radici. A ogni modo la costruzione della classe dirigente è un processo lungo. Ma, soprattutto, è qualcosa che deve presupporre anche un’apertura che vada oltre il perimetro della destra.

Meloni e la barra al centro. Le riforme? Troppa ideologia. Parla Macry

Meloni deve stare attenta al fuoco amico. Per consolidare il consenso alle Europee le conviene valorizzare la parte centrista della coalizione. Tanto più che Salvini cerca sempre di più di polarizzare il voto a destra. Le riforme sono un rischio e bisogna lavorare sulla costruzione della classe dirigente. Conversazione con Paolo Macry, docente emerito di Storia contemporanea all’università Federico II di Napoli

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