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Strano destino quello di Salvador de Bahia, prima capitale brasiliana. Nel 1624 venne presa dall’ammiraglio olandese Piet Hein, saccheggiata e governata con pugno di ferro. Un po’ di tempo dopo, considerando la sua posizione strategica, portoghesi e spagnoli, per una volta d’accordo, l’assediarono e la “liberarono”.

Tre secoli e mezzo dopo, con una guerra simulata, direbbe Desmond Morris, celebrato autore della “Tribù del calcio”, il testo “metacalcistico” che meglio riassume il senso di questo fantastico e bizzarro sport, proprio a Salvador i suoi “liberatori” sono caduti per mano (o meglio per piede) di tedeschi ed olandesi. Quando si dice la vendetta della storia… La tragedia iberica, che per una volta ricompone nel dolore Spagna e Portogallo, ha un protagonista assoluto, la cui solitudine è già emblema del Mondiale brasiliano: Cristiano Ronaldo.

Smarrito, confuso, frastornato era l’ombra di se stesso quando l’arbitro ha fischiato la fine dell’incontro. Il campione incontrastato, bello come un dio greco, amato e ricco più d’un sultano, invidiato per la classe, lo stile e la fortuna ha passeggiato per novanta minuti tra i fantasmi che indossavano la sua stessa casacca. E forse si domandava, alla Bruce Chatwin, “che ci faccio io qui?”. Già, che ci faceva il due volte Pallone d’oro tra calciatori spaesati e rissosi, come quel Pepe altero e incosciente al punto di farsi cacciare dal campo? Che ci faceva un artista tra gli apprendisti che pure militano in squadre di tutto rispetto in Europa? Che ci faceva sulla fascia destra dove s’affollavano i panzer tedeschi impedendogli visione di gioco ed invenzioni non sostenute da chi avrebbe dovuto tenere il suo passo e corrergli a fianco?

Quando gli angeli precipitano, nessuno li raccoglie, mentre quando volano sono tutti lì ad osannarli. Ronaldo non fa eccezione. La sua caduta è stata rovinosa. E non gli è stata riservata alcuna pietà. I giornali che non lo amano perché più vicino agli dèi che agli umani, prefigurano la sua fine prematura; i portoghesi stessi lo dipingono distante ed inaccessibile; i madridisti temono contraccolpi dalla rovinosa sconfitta. Non uno che s’impietosisca per la solitudine del campione ferito a cui non bastano  certo i pur cospicui doni che la sorte gli ha riservato per consolarsi in fretta.

Il Portogallo non è all’altezza di Ronaldo. Inutile girarci intorno. E sarà così fino alla fine del torneo. Non è detto che negli incontri che seguiranno – Ghana e Stati Uniti – non possa riprendersi, ma la sconfitta sonora con la Germania peserà e condizionerà il prosieguo del torneo.

Ronaldo non vincerà quello che poteva essere il suo Mondiale, come accadde ad un altro grandissimo portoghese recentemente scomparso: Eusebio, il più fantastico centravanti lusitano, di origine mozambicana che aveva cominciato a muovere i primi passi nel Lourenço Marques, prima di approdare al Benfica, che nel 1966 in Inghilterra ci andò vicino alla Coppa Rimet. E aveva peraltro intorno una squadra le cui mirabolanti imprese ho ancora davanti agli occhi, in bianco e nero. Dopo che la Corea cacciò via malamente l’Italia non mi rimase, come a tanti, che tifare per quel fantastico Portogallo che arrivò terzo dopo Inghilterra e Germania, battendo una Russia coriacea e aggressiva. Aveva umiliato anche il Brasile di Pelé e l’Ungheria. Eusebio fu capocannoniere con nove reti.

Poi calò il sipario sul Portogallo fino all’apparizione di Cristiano Ronaldo. Ma non è bastato. Le illusioni portoghesi continuano come nel Livro do desassossego di Fernando Pessoa, il libro dell’inquietudine che ogni lusitano si porta nel cuore. A Ronaldo cosa si può regalare oggi se non qualche verso pessoiano? “Il poeta è un fingitore/finge così totalmente/da fingere che è dolore/il dolore che davvero sente”. Fino al prossimo trionfo. Forse.

Brasile 2014, un Pessoa per Ronaldo. Il taccuino di Malgieri

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