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Non ci siamo, compagno Poletti. Con l’intervista al Corriere della Sera non è solo il ministro del Lavoro a gettare la maschera. Insieme a lui lo fa tutto il governo. Non abbiamo a che fare con una sinistra innovativa che è “andata a scuola” da Pietro Ichino e da Tito Boeri e che, giunta al potere, si appresta a dare attuazione a quelle idee che, per anni, hanno fatto il giro delle conferenze e … dei salotti.

No. Purtroppo anche il Pd a trazione renziana resta inviluppato nel consueto reticolo di ideologie malate quando si tratta di affrontare temi di grande rilevanza economica e sociale; si attarda a “rammendare le solite vecchie calze” anziché promuovere quelle misure che, ben al di là dello loro effettiva portata, manderebbero un segnale di cambiamento ai mercati, che si nutrono pure di simboli. Ed è singolare che un “grande comunicatore” (lo sono anche i truffatori) come Pier Matteo Renzi-Tambroni non sia in grado di cogliere quanto di emblematico ci sarebbe in una revisione significativa della disciplina del licenziamento individuale.

A chi scrive, tuttavia, non interessano tanto le considerazioni che Giuliano Poletti svolge a proposito dell’articolo 18. Sono convinto, infatti, che, dopo la riforma del contratto a termine, con l’abolizione della causale per tutta la sua durata e con la possibilità di ben 5 proroghe, il problema di quel maledetto articolo che sta tra il numero 17 e il numero 19 della legge 300/1970 si sia fortemente ridimensionato, perché il decreto n. 34 (Dio gliene renda merito, compagno Poletti!) ha aperto, a favore delle imprese, un’uscita di sicurezza per almeno un triennio (sempre che la Corte di Giustizia non accolga il ricorso della Cgil).

Dopo di ciò, il governo e la maggioranza possono confezionare a loro piacimento quel sarchiapone del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (introducendo un periodo di prova tanto lungo da essere ridicolo, modulando le sanzioni contro il licenziamento illegittimo, dapprima e per un certo numero di anni attraverso la penale, poi con la reintegra); ma nessun imprenditore preferirà avvalersene al posto del nuovo contratto a termine, per il semplice fatto che, grazie a quest’ultimo istituto, si evita il rischio di finire in giudizio, come invece potrebbe sempre avvenire anche con il contratto a tempo indeterminato di nuovo conio. E non si venga a dire che l’utilizzo del sarchiapone potrà essere incoraggiato con incentivi e sconti, in primo luogo perché è ora di smetterla con la prassi di “drogare” l’occupazione; in secondo luogo perché – come sosteneva Marco Biagi – nessun disincentivo normativo può essere compensato da un incentivo economico. Basta mettere a confronto l’esperienza compiuta con il “pacchetto Giovannini” che premiava, con un bonus da 600 euro mensili fino a 18 mesi, le assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato. Bene. Appena è entrato in vigore il contratto a termine ‘’made in Poletti’’ le aziende hanno cessato di utilizzare l’opportunità dell’incentivo di Giovannini per rivolgersi al nuovo istituto (benché più oneroso dell’1,4%).

Il Pd vuole tenersi l’articolo 18? Si accomodi. Il governo di Pier Matteo Renzi-Tambroni può anche provvedere ad imbalsamarlo, a richiuderlo in una teca e ad organizzare vere e proprie visite guidate, come si faceva un tempo nel Mausoleo di Lenin a Mosca sulla Piazza Rossa.

Tornando all’intervista di Poletti mi inquieta di più la parte sulle pensioni. Il ministro insiste nel contrabbando degli esodati, i quali, nella sua proposta, non sono più quei lavoratori rimasti intrappolati nella riforma Fornero, perché – prima della entrata in vigore dei nuovi requisiti – avevano cessato ogni attività e si trovavano a disporre di un reddito mediante l’erogazione di ammortizzatori sociali o di extraliquidazioni datoriali. I problemi di queste persone sono stati risolti grazie a ben 6 provvedimenti di salvaguardia (che tra l’altro hanno dimostrato quante esagerazioni e demagogia ci siano state nell’indicazione del numero degli interessati).

Poletti si spinge molto più avanti, fino alla vecchia pratica di piegare il sistema pensionistico alle esigenze del mercato del lavoro. Da quello che si comprende, le sue proposte – in linea con la rottamazione dei dipendenti pubblici di cui alla legge Madia – vanno tutte a parare su modelli di prepensionamento, sia pure meno generosi di quelli con cui si fece fronte alla ristrutturazione produttiva degli anni ’80. E’ la via più comoda, quella di risolvere i problemi delle persone erogando loro delle pensioni piuttosto che aiutarle a ritrovare un lavoro; ma ormai è divenuta insostenibile per le finanze pubbliche. Le risorse occorrenti non si troveranno mai: neppure mettendole a carico di qualche centinaia di migliaia di pensioni d’oro, che, peraltro, già sono sottoposte ad un contributo di solidarietà. Secondo Poletti “dipende da dove si fissa l’asticella”. Siamo già all’esproprio proletario? Staremo a vedere. Ovviamente confido nell’arrivo della Trojka…

Pensioni, ecco perché mi inquietano i pensieri del ministro Poletti

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