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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Mi manca sempre di più Francesco Cossiga. Nel riarso deserto delle personalità attuali, tutte prodotte dal marketing e dalle regole furbesche dello spin comunicativo, Francesco, oggi come ieri, è irriproducibile, unico, maestro di sé stesso, come diceva Platone, e quindi maestro immediato di tutti coloro, me compreso, con i quali veniva in contatto.

Amico fraterno, Francesco Cossiga, consigliere accorto e perfetto conoscitore di uomini, nonché sapiente utilizzatore di quella grande tradizione scientifica e filosofica che, da Botero in poi, chiamiamo la ragion di Stato.

Lo Stato, Cossiga lo sapeva bene, può e talvolta deve superare la morale comune, che è fatta per i privati e i singoli, mentre il macroantropo statuale, l’immagine del Leviatano di Hobbes, ha leggi sue proprie, proprio come ci ha insegnato un grande pensatore “laico” che Francesco molto amava, Machiavelli, magari sottolinandone l’ingenuità idealistica del Principe che unisce l’Italia, di contro al più scettico ma più sottile conoscitore di uomini Guicciardini.

Per Cossiga, cattolico senza dubbi e ansie di modernismi inutili, formatosi alla scuola di un grande parroco sassarese, l’Italia, come spesso ripeteva, “era una scelta, come per tutti noi sardi”.

Laico in quanto cattolico, quindi, con un senso dello Stato inevitabilmente pluralista come il nostro, da rispettare in tutte le sue storie partitiche, regionali e culturali.
Di Massoneria ne sapeva molto: il padre era stato Venerabile della più antica Loggia di Sassari, e aveva imposto una educazione cattolica per Francesco al grido “meglio i preti che i fascisti”.

Per Cossiga la Massoneria era, insieme, l’asse del Risorgimento, a cui ricollegava anche un certo filone cattolico, come quello di Rosmini, e non è certo un caso che fu per pressione di Francesco che la Chiesa di Roma nominò Beato Antonio Rosmini, nel 2007.
Era la vera storia dell’unità italiana, che non è lotta contro la Chiesa, ma unione di misticismo laico (e massonico) e di forti istanze di rinnovo spirituale e religioso, che sono sempre ciclicamente germinate nella Chiesa di Roma.

Ma che cos’era la politica per Cossiga, che la viveva con immensa passione, la vera passione della sua vita? Non era servizio alla “comunità”, espressione ambigua, ma esplicito Servizio allo Stato e quindi alla sua unità, forza, autorevolezza, prestigio. Senza Stato non vi è Nazione, ripeteva spesso Cossiga.

Non posso nemmeno immaginare come avrebbe reagito alla attuale progressiva defamation del nostro Paese, dalla storia incredibile dei nostri due Fucilieri di Marina relegati in India alle sempre più comuni figuracce globali dell’Italia.

La sua Italia era quella del suo Corpo Militare preferito, i Dimonios della Brigata Sassari, che hanno poi rivestito con la loro gloriosa bandiera, sardista e guerriera, il feretro di Francesco, nel suo ultimo ritorno in Sardegna.
E non è certo un caso che fu Cossiga, uomo coraggioso anche nelle sue espressioni verbali, a mandare a quel paese (ma l’espressione era più colorita) Helmut Kohl, nel suo perfetto tedesco, che aveva esercitato sui classici della Goethezeit.

Helmut Kohl aveva tentato di lasciare fuori l’Italia dalla moneta unica, e l’espressione era, come al solito sprezzante per noi.
Nessun servilismo si potrebbe oggi pensare, da parte di Francesco, ai diktat paraeconomici di Berlino, e anzi un “cossighiano” redivivo (ma non ce ne sono più) avrebbe reagito di scatto ma con raziocinio, come faceva Francesco d’un tratto, ai continui adattamenti forzosi che la Germania richiede alle altre economie dell’Eurozona.

Lo Stato per Cossiga era basato sulla sua sicurezza, e quindi primari erano per lui i Servizi di intelligence.
Li curava con una passione maniacale, da esperto assoluto di Servizi qual’era, erede di quell’Aldo Moro che, a detta di Francesco, era un esperto supremo e insuperabile di intelligence.
Cossiga aveva un vero e proprio affetto, misto a stima professionale inconcussa, per Vincenzo Parisi, che fu capo della Polizia dal 1987 al 1994, l’anno della sua morte.

Parisi era, da dirigente del SISDE e poi da capo della Polizia di Stato, l’uomo della lotta alla mafia nel momento del “cambio di regime” dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica, e Vincenzo Parisi aveva capito tutto della strategia mafiosa e degli anni del “cambio di mafia” globale (in Messico, in Colombia, in Perù, in Turchia e per certi versi negli stessi USA) : la mafia che mira a “farsi stato”, stato regionale, area di rispetto politico, failed state in cui caricare sugli aiuti internazionali e sull’emigrazione forzata il mantenimento degli onesti, e far diventare l’illecito il business primario.

E’ la lettura, che Francesco fece prima di ogni altro, delle grandi migrazioni mediterranee verso di noi.
Cossiga leggeva perfettamente l’evoluzione della politica e della società italiana, altro che “follia”, come i giornalisti più superficiali e disinformati descrivevano in quegli anni.

La follia di Re Giorgio di Francesco fu una sola, savia come la follia di cui parla San Paolo nella Lettera ai Corinzi 1: 25-27: “poiché la follia di Dio è più savia degli uomini e la debolezza di Dio più forte degli uomini” ovvero, in politica, riconoscere che con la fine della guerra fredda finiva il ciclo politico dell’Italia Repubblicana (e Cossiga era un repubblicano intransigente).

Perché l’equilibrio tra gli Imperi aveva stabilizzato l’Italia, anche da punto di vista economico, ed ora, con la globalizzazione (che Francesco parificava alla americanizzazione) l’Italia doveva riformulare il proprio ubi consistam strategico, geopolitico, economico.

Ecco qui il “picconatore”: il Cossiga che, ben sapendo la verità, la smette di definire la strage alla Stazione di Bologna come “fascista” , e ricompone il dissidio tra le generazioni, accettando di incontrare una terrorista delle Brigate Rosse, e non per perdonare, perché quello è affare di Dio, ma per chiarire le responsabilità: le BR, come gli altri gruppi terroristici, erano comandati dall’Estero e bisognava ristabilire le proporzioni e le colpe. Lo strumento è meno colpevole della mano che lo guida.

E non è affatto detto che la Sinistra fosse comandata dall’Est e la Destra dall’Ovest, niente è così semplice nel mondo dell’intelligence, il regno dove la mossa principale è quella del cavallo.
L’Intelligence, lo dicevamo prima, era la passione e, direi, l’asse dell’Alta Politica, per Francesco Cossiga.

Amava e stimava molto, in un mondo in cui anche i Servizi italiani partecipavano delle lotte correntizie tra i vari gruppi di potere, soprattutto della DC, cosa inimmaginabile per Cossiga, l’Amm. Fulvio Martini, uno straordinario direttore del Servizio Militare, capace di gestire positivamente, una tra tutte, la crisi tunisina imponendo, contro i francesi e riuscendo nell’intento, un nostro uomo, Zine el Abidine Ben Alì, che presto si dimenticherà dell’Italia per percorrere le vie dell’affarismo familista.

Di Fulvio Martini Francesco me ne parlava sempre molto bene, era il suo modello di Capo del Servizio: autorevole, aggressivo quando serve, privo di quel servilismo inutile e pericoloso verso gli USA e gli altri nostri Alleati nella NATO che infastidisce soprattutto loro, capace di disegnare l’interesse nazionale oltre le beghe dei partiti.
L’intelligence è il cuore dello Stato, non un Servizio come tanti altri.

E non posso dimenticare l’amore che Cossiga nutriva per Israele: “senza Israele non vi è Occidente, senza Israele l’Occidente sarebbe perduto”, era un suo refrain.
Le bandiere che si vedevano a casa di Francesco erano sempre tre: quella degli USA, una nazione alla quale lo legavano sentimenti di vero e proprio amore, la bandiera della Gran Bretagna, e Cossiga nutriva per Margaret Thatcher una vera e propria venerazione, e quella di Israele.

Cossiga sapeva bene la storia dello Stato Ebraico. Ne riconosceva le radici mazziniane nel sionismo di Herzl, sapeva, diversamente da tanti nostri ignorantissimi “intellettuali”, che Israele era stato dichiarato indipendente da Ben Gurion sull’area che il Trattato della Partizione ONU aveva assegnato agli Ebrei, aveva una simpatia decisissima per il kibbutz, socialismo religioso che non si dimentica della Patria e della sua Difesa, e qui riteneva che, un giorno, Israele avrebbe potuto fare da esempio per la Nuova Italia che, paradossale cattolico mazziniano, vagheggiava dopo la fine del ciclo della improbabile Seconda Repubblica, alla quale non credeva.

Senza cultura non si fa politica, ripeteva sempre Francesco e la sua cultura, immensa, aveva alcuni miti e modelli: Tommaso Moro, il Santo della Chiesa Cattolica che rifiutò l’Atto di Supremazia di Enrico VIII e decapitato con l’accusa di Tradimento.

L’Utopia di Thomas More era un suo livre de chevet, e molto amava il Cardinale Newman, ex anglicano convertitosi alla Chiesa di Roma, un po’ come accadde ad un suo amatissimo poeta, Thomas Stearns Eliot. Il motivo della passione di Francesco per Newman era la teoria del Cardinale sul “primato della coscienza”.
Ecco, la coscienza individuale, che non è una invenzione del Protestantesimo, era la chiave della vita e della attività politica di Francesco Cossiga, che ricordo ancora con grande commozione.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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