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Per avere sui temi del lavoro uno sguardo appassionato eppure disincantato, tecnico ma non troppo specialistico, pragmatico e ben poco ideologizzato, occorre sentire Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro e relazioni industriali all’università di Modena e allievo di Marco Biagi, è stato in passato anche collaboratore di Maurizio Sacconi al ministero del Welfare.

Ecco la chiacchierata di Tiraboschi con Formiche.net.

Prof, si torna a parlare di abolire o meno l’articolo 18. Lei che ne pensa?

Penso che avremmo dovuto superare l’articolo 18 già 15 anni fa, ai tempi della riforma Biagi, in un contesto politico, economico e sociale del tutto differente da quello attuale. In quella fase, la rottamazione dell’articolo 18 era la bandiera di una battaglia essenzialmente culturale per la modernizzazione del mercato del lavoro.

E che differenze ci sono oggi?

Oggi il mondo è profondamente cambiato e altre mi paiono le priorità per il rilancio dell’occupazione e dell’economia. La natura del lavoro è radicalmente mutata in ragione dei cambiamenti tecnologici e demografici: più che l’articolo 18 ci sarebbe ora da rottamare l’intero assetto regolatorio del lavoro dipendente funzionale alla fabbrica fordista che ora non c’è più. Bene dunque Renzi quando dice che il nodo non è l’articolo 18 ma l’intero Statuto dei lavoratori, basti pensare alle norme su uso delle tecnologie, inquadramenti contrattuali e mansioni.

E’ vero che con la rottamazione dell’articolo 18 la disoccupazione potrebbe diminuire?

Difficile fare previsioni a tavolino. Ai tempi della legge Biagi, si parlava di una sperimentazione di tre anni per valutarne i reali effetti sul mercato del lavoro. Chi ha studiato il tema segnala comunque che l’intervento sull’articolo 18 rileva più in termini di produttività del lavoro che di riduzione complessiva della disoccupazione.

Secondo lei, le imprese al di sopra dei 15 dipendenti la ritengono una riforma normativa fondamentale o ci sono altri ostacoli ad assumere e investire?

Più che l’articolo 18, impatta per le imprese la riforma Fornero delle pensioni. Una riforma più che sacrosanta, in ragione dell’innalzamento delle aspettative di vita e della tenuta dei conti pubblici, e che tuttavia non poco ha inciso sulla mobilità del mercato del lavoro e sulla propensione delle imprese ad assumere. Non dimentichiamoci, del resto, che la riforme Fornero del mercato del lavoro ha già sostanzialmente liberalizzato i licenziamenti economici (per i quali non opera più la reintegrazione) eppure effetti positivi sul mercato del lavoro ancora non si vedono.

Perché i governi di centrodestra non sono riusciti a modificare/cancellare l’articolo 18?

Perché il nodo non era l’articolo 18 in sé quanto il blocco ideologico di un vecchio modo di fare sindacato che si voleva spazzare via e che tuttavia ha resistito sino a oggi. Con Renzi al governo questo potere di veto e interdizione del sindacato è largamente venuto meno. Per questo la riforma dell’articolo 18 va oggi presa per quello che è: un feticcio, certamente da superare, ma che non può essere venduto per quello che non è. La sua eliminazione non avrà cioè effetti decisivi sulle dinamiche del mercato del lavoro ma semmai potrà rappresentare, se ancora ce ne è bisogno, una liberazione culturale del lavoro da veti e ideologie del passato. Insomma, una prova di forza tra politica e sindacato che Renzi pare in realtà aver già vinto senza colpo ferire.

Enrico Marro sul Corriere della Sera ha scritto che con il decreto Poletti l’ostacolo dell’articolo 18 è stato di fatto rimosso. E’ così?
Sì, è proprio così. Allo stato il compromesso politico che si profila all’orizzonte è un superamento dell’articolo 18 per i giovani e i nuovi assunti. Ma già oggi le imprese sono teoricamente libere di assumere con contratti temporanei e senza articolo 18 eppure non lo fanno perché evidentemente il nodo non è la flessibilità in uscita ma la domanda di lavoro.

Il Jobs Act presentato dal governo in Parlamento riscrive in maniera opportuna le regole su contratti e lavoro? E come interviene sull’articolo 18?

Dobbiamo ancora attendere un documento tecnico completo per un giudizio di merito solido e ponderato. Quanto visto con il decreto Poletti sul lavoro a termine non preannuncia tuttavia nulla di buono: il compromesso politico di una maggioranza così eterogenea rischia di essere al ribasso e molto pasticciato tecnicamente. Non mi era invece per nulla dispiaciuto il testo iniziale di Jobs Act presentato da Renzi a gennaio con una serie di proposte di contesto: dai costi dell’energia e del lavoro a misure finalizzare a rilanciare settori tradizionali del nostro Paese (manifattura, ristorazione, turismo, cultura) e a sostenere i settori emergenti (lavori verdi, ICT e nuovo welfare). Solo a valle di queste misure, il cui impatto si potrà ovviamente misurare nel medio e lungo periodo, ha in effetti senso ragionare sulle regole del lavoro e cioè sulle norme di legge e contratto su come si assume e si licenzia.

Sindacati e imprese sembrano spaesati o atarassici. Non le pare?
Sì, in tutto questo vedo oggi un grande assente: il sistema di relazioni industriali. Cosa aspettano sindacati e imprese a giocare d’anticipo sul Jobs Act? Il cuore della riforma resta la produttività e la remunerazione del lavoro e qui il sistema di contrattazione collettiva avrebbe molto da dire, in autonomia dalla politica, a partire dal superamento del sistema anacronistico di classificazione e inquadramento del personale che è la vera sfida per la modernizzazione del lavoro e la competitività delle imprese.

Renzi ha già vinto la prova di forza su articolo 18 e sindacati. Parla Michele Tiraboschi

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