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Sempre perché è bene sapere ciò di cui si parla, quando parliamo di economia nel nostro tempo, è utile continuare a svolgere i nostri esercizi di retorica dedicando qualche ora all’analisi di uno degli strumenti più rilevanti tramite i quali si decidono i nostri destini: l’indice di sostenibilità del debito pubblico.

Come gran parte di questi indicatori, anche l’indice di sostenibilità, che pure contribuisce a stringere il laccio attorno alla nostra economia, è materia riservata agli addetti ai lavori, segnalandosi per la sua particolare astrusità e la fumosità delle sue premesse metodologiche, che spinge pure gli specialisti a considerarlo quantomeno approssimativo.

Ciò malgrado, l’indice, nelle sue varie versioni, fa bella mostra di sé in tutti i rapporti che parlano dello stato di salute della nostra finanza pubblica, a cominciare da quello della Banca d’Italia dedicato alla stabilità finanziaria e a finire dai vari documenti di previsione del governo.

Non a caso. Per chi ha un debito pubblico alto come il nostro, un indice che questioni circa la sua sostenibilità mette di sicuro in affanno i nostri collocamenti di bond statali. Perciò, imperfetto o meno che sia, l’indice diventa un importante punto di riferimento per gli asset manager che decidono cosa comprare, nel meraviglioso mercato finanziario.

In tal modo si sostanzia il fine dell’indicatore. L’artifizio retorico, contrabbandato per atto di analisi economica, diventa un movente politico.

Comprendere cosa sia la sostenibilità di un debito non richiede grande sforzo. In un mondo sempre più sbilanciato dal lato dei creditori, è interesse di questi ultimi, proprio perché devono costantemente rifinanziare debiti, sapere quali di questi debiti siano affidabili perché ripagabili. Ossia sostenibili.

Nella teoria finanziaria un debito viene definito sostenibile quando il valore attuale dei ricavi futuri previsti in un certo orizzonte di tempo sia capace almeno di pareggiare il valore attuale dei costi, sempre nello stesso periodo.

Detto in parole di tutti i giorni: un creditore che dovesse prestarvi dei soldi per un anno, vuole esser certo che i soldi che vi entreranno in tasca nel corso dell’anno grazie al suo prestito, perché magari li utilizzerete per produrre e vendere qualcosa, saranno sufficienti a garantirgli la restituzione del capitale che vi ha prestato più gli interessi.

Fin qui nulla di strano. Ma è chiaro a tutti che proprio per il suo rivolgersi al futuro, qualunque indice di sostenibilità è fortemente condizionato dall’incertezza. Non è banale ricordarlo. Specie quando il calcolo diventa sempre più astruso, rivolgendosi a entità complesse come sono i bilanci degli stati.

Ciò in quanto, anche questo è bene ricordarlo, sono gli stati ad essere messi in discussione oggidì.

Non si capisce la tecnica, e quindi la motivazione politica, se non si ricorda la storia.

Coma ognuno sa, il Trattato di Maastricht e il patto di stabilità e di crescita (PSC) hanno fissato rigorosi vincoli di bilancio per gli stati aderenti all’euro, che prevedevano anche meccanismi sanzionatori per costringere gli stati a stare nei mitici parametri.

Nel 2005, quindi nell’epoca felice dell’eurozona, si stabilì però di riformare il patto di stabilità e si decise proprio di inserire il concetto di sostenibilità del debito pubblico fra quelli che concorrevano a creare il migliore dei mondi possibili dove tutti noi eravamo chiamati ad abitare.

Fissato il principio, rimase solo da trasformarlo in realtà. Il movente politico, per essere cogente, abbisogna del contributo (pseudo)scientifico della tecnica per diventare strumento operativo e quindi, retoricamente, persuasivo.

Fortuna che, com’è noto, a Bruxelles gli uffici abbondano di uffici tecnici volenterosi e bene istruiti all’arte della retorica, che oggi si chiama economia, per lo più sconosciuti a tutti noi eppure tremendamente importanti.

Come ad esempio l’AWG.

Alzi la mano chi conosce l’Ageing population and susteinability working group (AWG).

Io, ad esempio non lo conoscevo.

L’ho scoperto da quando ho iniziato a occuparmi della questione della sostenibilità e così ho saputo che questa allegra brigata di pensatori si occupa, già dalla seconda metà degli anni ’90, di elaborare proiezioni e stime sull’invecchiamento della popolazione europea e sull’impatto che tale invecchiamento ha sulla famosa sostenibilità fiscale. Questo gruppo lavora nell’ambito del comitato di politica economica dell’Ecofin.

Quando perciò si decise di inserire la sostenibilità fra i costituenti del patto di stabilità, fu giocoforza rivolgersi ai simpaticoni dell’AWG, che intanto avevano lavorato per elaborare uno scenario macroeconomico comune in termini di ipotesi (sempre ipotesi) demografiche grazie alle quali calcolare (sempre ipoteticamente) le componenti della spesa pubblica influenzate dall’età. Le pensioni, tanto per cominciare. Ma anche la sanità e quant’altro.

Sicché quando il patto di stabilità fu aggiornato, i politici avevano già pronto lo strumento e una metodologia, quindi una tecnica.

Va a capire se viene prima l’uovo o la gallina. Se, vale a dire, i lavori dell’AWG prepararono la riforma del PSC. Poco importa: quello che importa è il risultato.

Tenetevi forte, perché adesso si balla.

La metodologia concordata in sede europea ricava la dinamica dello stock di debito pubblico in rapporto al PIL sulla base delle proiezioni demografiche, macroeconomiche e di finanza pubblica con un orizzonte temporale che attualmente arriva al 2060. Il famoso lungo periodo nel quale saremo tutti morti.

Ma uno scenario serve a poco senza indici che qualifichino buoni e i cattivi. E all’uopo furono definiti gli indici S0, S1 e S2, che poi approfondiremo, calcolati anche sulla base di scenari mutevoli a seconda dell’andamento delle variabili demografiche considerate. Ovviamente non sono certo gli unici. Anche il Fondo monetario ha inventato i suoi indici di sostenibilità, mettendo in grave imbarazzo i creditori, che magari vedono uno stato fiscalmente sostenibile secondo i criteri adottati dall’Ue e insostenibile con quelli del Fmi.

Ma poiché noi abitiamo in Eurozona, provincia di Europa, in questo esercizio di retorica ci limiteremo ai nostri indicatori.

Tutta questa roba, che chiunque abbia buon senso non può che definire campata in aria, dopo la riforma del 2005 del patto di stabilità deve essere inserita nei programmi di stabilità e di convergenza che i paesi della zona euro devono presentare ogni anno alla commissione Ue e al Consiglio dell’Ecofin, chiamate poi a valutarle.

Ed ecco che finalmente si sostanzia l’atto politico.

La leggenda della sostenibilità, meraviglioso artifizio retorico, si trasforma nella realtà del controllo.

Esercizi di retorica sul debito pubblico: la leggenda della sostenibilità

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