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La vicenda politico-costituzionale che ha dato vita – in un primo momento – alla sostituzione del senatore Pd Corradino Mineo nella Commissione affari costituzionali del Senato, in un secondo momento alla molto significativa “autosospensione” di ben 14 senatori del Pd, sembra oggi destinata ad un qualche tentativo di ricomposizione tra gli autosospesi e il gruppo senatoriale del Pd guidato dal senatore Zanda e merita pertanto una riflessione che sappia andare al di là degli aspetti più strettamente giuridico costituzionali della vicenda medesima.

Non si tratta infatti di vicende che concernono singole persone estranee al contesto politico generale entro il quale l’intera vicenda è stata condotta fino ad ora, e che pertanto non potranno ritenersi concluse quali che siano le determinazioni formalmente assunte dai dissidenti da un lato e dal gruppo senatoriale del Pd dall’altro.

Occorre infatti partire proprio da quella che è stata molto probabilmente una insufficiente valutazione del significato politico-costituzionale che ha avuto l’intera vicenda della elezione di Matteo Renzi a Segretario nazionale del Pd in un primo momento e – successivamente – alla sua designazione a Presidente del Consiglio dei ministri in seguito ad una formale deliberazione della direzione nazionale del Pd medesimo.

Siamo infatti in presenza del tormentato passaggio da una antica cultura che vede nel partito politico il soggetto determinante sia per a nascita e per la morte dei governi in carica, sia per l’equilibrio da conseguire tra la libertà di mandato parlamentare individualmente sancito dall’articolo 67 della Costituzione e il principio politico-costituzionale di maggioranza.

Occorre infatti ricordare che Matteo Renzi fu eletto Segretario nazionale del Pd in seguito a due e ben distinte primarie: la prima rigorosamente limitata agli iscritti al Pd, mentre la seconda è stata aperta a quanti pur non iscritti al Pd si riconoscessero comunque su temi fondamentali di leadership personale e di programma.

In quelle doppie primarie risiede la sostanziale divergenza di opinioni proprio in ordine al rapporto tra la libertà di mandato parlamentare e principio di maggioranza.
Nella formazione del Partito democratico si è infatti innestato una sorta di doppio principio: da un lato la libertà di opinione del singolo parlamentare che rispetta il principio di maggioranza alla cui determinazione egli in qualche modo concorre, e dall’altro la trasformazione del Pd medesimo in vero e proprio comitato elettorale la cui “vocazione” maggioritaria finisce pertanto quasi con il coincidere con le modalità quasi esclusivamente elettorali quali sono quelle previste per la elezione del sindaco.

Si tratta dunque di due principi che sono convissuti fin dal momento della nascita del Partito democratico perché provenienti o dall’antica tradizione del Partito comunista o dalle tradizioni di altri partiti a cominciare dalla concreta esperienza storica della Democrazia Cristiana.

Questa convivenza sta subendo una qualche accelerazione in senso maggioritario elettorale all’indomani delle elezioni europee vinte con larghissimo margine da Matteo Renzi, la cui precedente esperienza di sindaco tende naturalmente ad una qualche forma di modello presidenziale.
Sia che si tratti infatti del modello presidenziale statunitense, sia che si tratti del cosiddetto “semipresidenzialismo francese”.

Siamo infatti in presenza di un radicale passaggio dai vecchi partiti che trovavano nel sistema parlamentare una sorta di regola generale per la interpretazione dell’equilibrio costituzionale e politico tra libertà di mandato parlamentare e il principio di disciplina rispetto alla maggioranza, e i nuovi partiti che – di conseguenza – stentano a trovare un equilibrio accettabile tra una legge elettorale maggioritaria che tende in qualche modo alla elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, e il sistema costituzionale di governo, che pur continua a prevedere un Presidente della Repubblica dai poteri alquanto indefiniti.

Questo equilibrio non può durare a lungo.

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