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Capitalista, diligente e dispotica, La Cina ha scoperto da pochi anni la confortevole riservatezza dello shadow banking, le sue spire barocche, la sua straordinaria piacevolezza. E dopo averla scoperta non riesce ormai a farne più a meno. Anzi: ne abusa, come in fondo è giusto che sia in una nazione che solo di recente ha scoperto gli agi occidentali della sregolatezza finanziaria.

Ciò spiega perché il Fondo monetario ne abbia fatto oggetto di una ricognizione nel suo ultimo global financial stability review.

D’altronde i rischi generati dalle banche ombra cinesi, volenti o nolenti, ci riguardano tutti.

“Le istituzioni non bancarie in Cina – spiega il Fmi – sono diventate un’importante fonte di finanziamento, e questa è una conseguenza naturale dei processi di riforma che hanno dato priorità alla diversificazione di un sistema dominato dalle banche”. Fin qui nulla di strano: è accaduto un po’ dappertuto.

I problemi cominciano quando diventa difficile, persino al Fondo Monetario, stimare l’entità del fenomeno. “Secondo stime non ufficiali conservative (quindi sottostime, ndr) il settore non bancario cinese oscilla pesa fra il 30 e il 40% del Pil ed è raddoppiato dal 2010″. Tale crescita, spiega il Fondo, è stata una delle conseguenze delle politiche di stimolo fiscale decise da Pechino per sostenere l’economia dopo la crisi del 2008, che abbiamo già visto hanno determinato un notevole spostamento di debiti fuori dalla contabilità pubblica ufficiale.

Senonché neanche il parziale miglioramento della tensione internazionale è servita a rallentare la crescita delle banche ombra cinesi. Al contrario. Scoperto l’arcano i cinesi ci hanno preso gusto, e non è difficile capire perché.

Il Fondo infatti spiega che gran parte di questo credito non bancario è stato alimentato dalla banche commerciali (come succede ovunque) che volevano far sparire un po’ di crediti dai loro bilanci, magari perché soggette a supervisione e regole che ne limitano l’erogazione. Il marchingegno, o almeno uno dei più diffusi, prevede che le banche vendano un prestito a un trust, a una società esterna insomma, aiutandola poi a trovare i soldi necessari a ripagarlo (tramite l’emissioni di obbligazioni intestate al trust) fra i propri clienti.

Altresì le banche possono vendere quote di wealth management product (WMPs), sorta di fondi, che poi magari investono i questi trust o in altri asset fuori dai bilanci bancari.

Lo stock di WMPs cinesi è stimato nell’ordine dei 10 trilioni di yuan, più o meno il 20% del Pil. E la crescita irrefrenabile di questi prodotti ha consentito di alimentare una crescita dei trust, ai quali si stima sia andato almeno un 40% di queste risorse.

I trust d’altronde usano anche il mercato interbancario per finanziarsi, e chi segue le cronache cinesi ricorderà le tensioni registrate in questi mesi su tale mercato.

WMPs e trust sono due delle componenti principali, ma non certo le uniche, del sistema bancario ombra cinese. E che mettano a rischio la stabilità finanziaria è scritto nella storia dello shadow banking, oltre che nella specificità cinese.

Nella fattispecie, i WMPs cinesi garantiscono un guadagno in media intorno ai 200 punti base in più rispetto a un normale deposito bancario, trascurando di sottolineare che a un maggior rendimento corrisponde sempre un maggior rischio. Anche perché nello splendido mondo cinese, dove le banche sono dello Stato, i sottoscrittori di questi prodotti pensano che su di essi valga la garanzia implicita del governo.

Non vi ricorda niente? A me sì: il disastro dei subprime e il crollo delle agenzia governative americane che smerciavano Abs che il mercato quotava pensando che avessero la famosa garanzia implicita del governo.

Il copione, insomma si replica: la fame di rendimenti e il denaro “facile” messo a disposizione da banche a loro volta affamate di rendimenti incoraggia il moral hazard. E la montagna di debito nascosta cresce senza sosta.

“Ma – avverte il Fmi – la percezione di sicurezza che nasconde questi investimenti può rapidamente sparire in un ambiente di crescenti default di questi prodotti, o anche di calo dei rendimenti”.

Poi c’è il rischio della maturity transformation. Dovendosi finanziare a breve per investire a lungo, le banche ombra incappano sistemicamente in questo rischio che, se è gestibile in un mercato liquido, diventa ingestibile in un mercato teso, come già abbiamo visto accadere nell’interbancario cinese, che in diverse occasioni di recente ha visto i tassi a brevissimo impennarsi a due cifre.

Metteteci poi che oltre un terzo di questi trust, che hanno un leverage ratio pari a 35 volte il capitale in media, hanno investito sul mattone, le infrastrutture e le miniere, quindi asset ormai pesantemente gonfiati, offrendo ai sottoscrittori rendimenti fino al 9%. Ciò provoca che devono continuamente fare roll over sui propri prestiti, di conseguenza trasformandosi in idrovore di liquidità, che rendono il mercato monetario estremamente volatile.

Lato asset, le banche ombra cinesi investono nei famigerati local government financing vehicles (LGFVs), ossia i primi responsabili della montagna di debito nascosto che cova a Pechino, potendo contare queste ultime (anche loro) della famosa garanzia implicita del governo, che però non deve esserne troppo felice. Tanto da imporre limiti al loro ricorso al credito bancario, proprio perché questi veicoli sono molto indebitati e con cash flow deteriorati.

Ma è un vincolo teorico. Se le LGFVs sono off limit alle banche, sono bene accette dalle banche ombra, che, come abbiamo visto, solo alimentate dalle stesse banche proprio per aggirare i vincoli regolamentari.

Questo intreccio molto cinese, ma sostanzialmente simile a quello angloamericano, ha già mostrato la corda in diverse occasioni, come ricorda lo stesso Fmi, “particolarmente nel settore dei trust, con conseguenza anche su altre parti del sistema finanziario”. Alcuni trust hanno avuto difficoltà a ripagare i propri debiti, e non solo per la quota interessi, ma anche quella capitale, e si è posto rimedio a questi default potenziali grazie a pagamenti delle banche sponsor, che magari hanno creato nuovi veicoli che hanno assorbito i primi, o tramite acquisizioni del veicolo in crisi per evitare il default.

Insomma, la Cina, che ha alle spalle una ricca tradizione di default bancari, pare stia mettendo in piedi tutto quello che serve per organizzarne un altro in grande stile che potrebbe diventare un notevole fonte di contagio globale, malgrado le restrizioni finora esistenti sul flusso dei capitali cinesi.

I canali di trasmissione, infatti sono aperti e operanti, grazie soprattutto alla piazza off shore di Hong Kong, dove si calcola sia parcheggiato almeno il 20% del settore ombra bancario cinese. E poi c’è il mercato offshore dei renminbi, altra ossibile fonte di contagio.

I cinesi hanno imparato bene la lezione americana, evidentemente: se tutti vanno a rotoli, nessuno va a rotoli.

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