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Nelle ultime settimane si è diffusa, soprattutto nei media anglosassoni, dal Wall Street Journal al Financial Times, la vulgata secondo cui il mercato dei veicoli elettrici (EV) sia entrato in una fase di raffreddamento. Complice un rallentamento della domanda, l’aumento dei tassi d’interesse che non favorisce prestiti agevolati per veicoli ancora molto lontani dall’essere abbordabili per la classe media, soprattutto se non bilanciati dai sussidi o incentivi pubblici.

Chiaramente si tratta di dinamiche che influiscono fortemente sulla crescita auspicata dalle normative per l’abbattimento delle emissioni del trasporto negli Stati Uniti e nell’Unione europea, i due più grandi mercati automotive al mondo. Se da un lato il contesto sistemico non aiuta, la volontà politica dell’amministrazione Biden con l’Inflation Reduction Act (Ira) è quella, invece, di supportare la filiera verso la transizione all’elettrico, con tutte le difficoltà che gradualmente stanno emergendo e che sono figlie di un ritardo tecnologico e industriale accumulato nei confronti dell’acerrimo rivale: la Cina.

Lo hanno di recente rimarcato i senatori Mark Warner, a capo del Senate Intelligence Committee e Joe Manchin, che presiede l’Energy Committee del Senato, in una lettera inviata direttamente al Dipartimento dell’Energia statunitense. I due senatori hanno infatti richiesto di rafforzare la produzione di batterie domestica, dal momento che gli Usa sono “10 o 20 anni indietro rispetto all’Asia nella commercializzazione della tecnologia delle batterie”. La Cina conta per il 75% della manifattura di celle per le batterie al litio. Nel 2022, secondo le stime d McKinsey, gli Stati Unti avevano prodotto solo il 10% delle batterie, rispetto al 70% del rivale asiatico, per una capacità globale circa di 700 GWh e una domanda prevista al 2030 di 4.7 TWh.

Il passaggio dell’Ira è stato sicuramente uno snodo importante per stimolare la nascita di un’industria delle batterie nazionale, spingendo sulla necessità prioritaria di riscrivere prima di tutto una geografia delle filiere alternativa a quella imperniata sulle aziende cinesi. I dati diffusi dal Dipartimento dell’Energia raccontano di 208 investimenti privati (a settembre 2023) per un totale di circa $100 miliardi e 75.000 posti di lavoro. Dai minerali critici ai prodotti chimici, passando per la componentistica finale (catodi, anodi etc.), puntando sulle forniture dai paesi “amici” (con cui gli Usa hanno in vigore accordi di libero scambio) e costruendo nuove partnership bilaterali con nazioni tecnologicamente avanzate come il Giappone e la Corea, quest’ultima il secondo Paese per produzione di batterie dietro la Cina con aziende leader come Samsung SDI, LG Energy Solution e SK On.

Si tratta di aziende che stanno investendo massicciamente negli Stati Uniti, stringendo partnership e joint venture per costruire gigafactory nel Paese con colossi dell’auto come General Motors e Ford. LG e Panasonic, azienda giapponese, sono invece già da diversi anni grandi partner di Tesla che per molti analisti rappresenta il vero deux ex machina del mercato EV americano in questa fase. Tornando al supposto raffreddamento del mercato, i volumi di vendita negli Usa hanno stabilito un altro record nel terzo trimestre, poiché le vendite totali di veicoli a batteria hanno superato per la prima volta le 300.000 unità nel mercato statunitense. Le vendite di veicoli elettrici nell’arco dell’anno, fino a settembre, hanno superato di poco le 873.000 unità, portando il mercato a superare per la prima volta il milione di unità. Tesla mantiene uno share del 50% circa.

Il colosso di Elon Musk è in una posizione di forza indiscussa rispetto agli OEMs tradizionali, sia americani che europei (BMW, Volkswagen, Stellantis etc.) proprio perché possiede oltre un decennio di esperienza nella manifattura e vendita di EV, soprattutto in termini di costi di produzione, con margini molto ampi dovuto ad uno share del mercato (rimasto di nicchia per lungo tempo) praticamente da monopolista. Non appena i produttori tradizionali hanno annunciato i loro piani di conversione all’elettrico e sono emerse start-up come Rivian e Lucid, Tesla ha iniziato una vera e propria “guerra” dei prezzi.

Abbassare i prezzi dei suoi modelli premium è una strategia chiaramente difensiva e che si costruisce sulla possibilità di spalmare le “perdite” per unità venduta sui volumi ancora molto ampi rispetto ai rivali (Tesla può contare, non ancora troppo a lungo per l’emergere di BYD e altri produttori cinesi, su una domanda solida in Cina) e, non secondariamente, sulla strategia industriale che vede Tesla ormai contare per quasi il 50% dei suoi modelli sulla tecnologia a batterie litio-ferro-fosfato (LFP) a fianco di quella, storica, a maggior contenuto di nichel e cobalto (NMC). Sono batterie meno care, prodotte principalmente in Cina in collaborazione con Catl, ma comunque affidabili. Dunque, è possibile che la scommessa al ribasso di Tesla possa trascinare il mercato americano in una spirale di competitività, dal momento che per guadagnare terreno anche i grandi colossi dell’automotive saranno costretti a rincorrere, seppur partendo da basi – scala e tecnologia – molto meno solide rispetto all’azienda di Musk.

Sono problemi che accomunano anche le grandi case europee. In Europa, dove la Tesla Model Y regna sovrana tra le vendite EV, siamo di fronte ad un nodo gordiano: l’assenza di una domanda “europea” robusta di EV rischia di avvantaggiare, nel medio termine, anche le esportazioni cinesi, mentre al contempo la volontà politica di supportare la transizione all’elettrico (confermando il phase-out dei motori a combustione nel 2035) rischia di essere una vittoria di Pirro se non emergerà una filiera industriale competitiva. Tra le esportazioni cinesi di veicoli elettrici nel 2022, le spedizioni verso l’Europa – Ue, Norvegia e Regno Unito – sono aumentate dell’89,4% rispetto all’anno precedente, raggiungendo le 437.000 unità, occupando il 46,4% delle esportazioni totali di automobili della Cina e rappresentando la quota maggiore. Ciò significa che la forza trainante dell’avanzata dei veicoli elettrici cinesi è stata anche il mercato europeo, con la Cina che ha approfittato della promozione dei veicoli elettrici da parte del blocco e delle difficoltà tecno-industriali delle case automobilistiche europee. A maggio scorso, Allianz Trade ha pubblicato un rapporto in cui avvertiva che le importazioni europee di veicoli elettrici di produzione cinese potrebbero costare all’economia dell’Ue 24 miliardi di euro entro il 2030, e che le economie dipendenti dal settore automobilistico di Germania, Slovacchia e Repubblica Ceca potrebbero subire un danno compreso tra lo 0,3% e lo 0,4% del loro Pil.

Come raccontato su queste colonne, l’ascesa di BYD, Nio e altre start up cinesi – a cui guardano con grande interesse anche le case europee, come Stellantis su Leapmotor, per la condivisione di tecnologia sulle batterie – sui mercati esteri si costruirà, a differenza di Tesla, su una strategia attiva sui prezzi per conquistare share, più che difendere o consolidare quello esistente. E questo perché contando su un’industria delle batterie avanzata tecnologicamente e ormai in scala, per l’espansione massiccia del mercato EV in Cina trainata dai sussidi pubblici. Secondo la China Association of Automobile Manufacturers, le vendite di NEV (elettrici e ibridi plug-in) in China è aumentata del 37% nei primi nove mesi dell’anno.

È tuttavia evidente che, allo stato attuale, non può esserci una transizione all’elettrico da parte dei grandi OEMs europei senza partnership con i cinesi. Lo dimostra anche il recente annuncio di BYD che aprirà una fabbrica in Ungheria (Paese che ospita già una gigafactory in costruzione di Catl). Le rivali coreane, che possiedono tecnologia e know-how e potrebbero costituire una valida alternativa ai produttori cinesi seppur anch’esse fortemente integrate nel network regionale di materiali e componentistica, stanno subendo anche sui mercati esteri la crescente concorrenza cinese. Secondo i dati di SNE Research diffusi ieri, la capacità installata di batterie di Catl all’estero ha raggiunto i 64 GWh tra gennaio e settembre di quest’anno, un salto del 105% rispetto allo stesso periodo nel 2022, e raggiungendo LG Energy Solution al 28% del mercato fuori dai rispettivi mercati nazionali. SK On e Samsung rimangono al quarto e quinto posto su scala globale, ma insieme a LG hanno perso quasi 6 punti percentuali ai danni delle cinesi Catl e BYD che mantengono rispettivamente il 36.8 e il 15.8% del mercato mondiale. Le batterie di Catl sono installate su veicoli come la Tesla Model 3 e Y, e nei modelli premium di BMW, MG, Mercedes, Volvo e più di recente il modello “Kona” della Hyundai e “Ray” di Kia. “Le aziende cinesi inclusa Catl” si legge nel report “stanno guadagnando rapidamente share di mercato grazie ad una maggiore crescita fuori dalla Cina rispetto al mercato domestico”.

Dunque, tra gennaio e settembre si è registrata una crescita di capacità installata (GWh) di batterie cinesi al di fuori del mercato EV del Paese, suggerendo quindi un aumento della domanda in Europa e non solo. Chiaramente, questo non può e deve tradursi in un dato a supporto della tesi per cui il mercato EV non stia rallentando (il dato benchmark sono le registrazioni mensili), ma piuttosto suggerirci che i grandi produttori di batterie cinesi scommettono fortemente sulla crescita del mercato estero (soprattutto quello europeo) oltre al fatto che puntano a scaricare l’eccesso di produzione che non viene assorbito internamente (dal 2024-2025 verrà estero il pacchetto di incentivi e sussidi, da circa 72 miliardi di dollari, che, momentaneamente sospeso, aveva contribuito a raffreddare la domanda di domestica all’inizio del 2023). Lo share di mercato di Catl in Europa è aumentato del 24% quest’anno, rispetto al 10% del 2020 secondo l’analisi di HSBC.

Dunque, se non sarà invasione di auto elettriche “made in China” – vedremo, a questo riguardo, quale sarà la risposta della Commissione in seguito all’indagine annunciata a settembre – l’ecosistema EV europeo dovrà necessariamente confrontarsi con il dominio sulla filiera delle batterie, con il rischio di subire ulteriori misure coercitive come già sperimentato con l’export ban sulla grafite (elemento cruciale per gli anodi delle batterie) e con gallio e germanio nel contesto della competizione Usa-Cina sui semiconduttori. È evidente che la dipendenza da Pechino su un prodotto ad alto valore aggiunto è un problema di bilancia commerciale e ritardo tecnologico, anche sulle frontiere innovative come le batterie al sodio e allo stato-solido, non di mero “rischio” di approvvigionamento. Il rischio è che, facendo affidamento su un partner con conoscenze avanzate e network di fornitori consolidati, non emergano sul suolo europeo start up o aziende competitive (l’unica eccezione di nota, Northvolt) e che le grandi case automobilistiche abbiano gioco facile nel rivolgersi alle industrie cinesi in assenza di componenti a buon mercato. L’alternativa è costruire una filiera più regionalizzata, come dimostra l’investimento di LG in Marocco per raffinare fosfato e litio ma comunque in partnership con un’azienda cinese, Huayou Cobalt.

Intanto, gli Stati Uniti hanno eretto con l’Ira delle clausole più stringenti. Nei prossimi mesi, sono attese nuove linee guida da parte del Dipartimento del Tesoro sulla clausola cosiddetta “foreign entity of control” (FEOC), che impone alle imprese che vogliano beneficiare di entrambi i due incentivi fiscali previsti dalla misura (per un totale di $7,500) di escludere fornitori controllati da governi ritenuti ostili e una minaccia per la sicurezza nazionale, oltre ad aver aggiunto una tariffa commerciale extra (25%) sugli EV cinesi.

Misure protezionistiche che continuano ad animare il dibattito, anche in un’ottica transatlantica tra Ue e Usa e che potrebbero essere al centro di un nuovo accordo di libero scambio imperniato proprio sui materiali critici, al fine di consentire alle aziende che producono batterie in Europa (e, in linea di massima, veicoli elettrici) di accedere allo schema di incentivi dell’Ira al pari di quelle americane. La necessità di diversificare gli approvvigionamenti di materie prime critiche, dossier che accomuna Washington e Bruxelles attraverso la Minerals Security Partnership, rappresenta un tavolo negoziale che potrà sanare la divergenza di vedute sulla natura tendenzialmente antagonista delle politiche industriali varate fino ad ora dall’Occidente sulle tecnologie green.

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