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L’adesione all’euro permette un’autonoma politica economica? È l’interrogativo attorno al quale si è animato un vivace dibattito promosso dall’associazione politico-culturale FutureDem dal titolo “Le tre facce della moneta unica. Elezioni europee: le risposte economiche alla crisi tra progressisti, liberisti, euroscettici”.

Tre orizzonti culturali

Moderato dallo studente dell’Università Luiss “Guido Carli” Nicolò Fraccaroli, il confronto ha visto protagonisti autorevoli rappresentanti delle tre visioni destinate a scontrarsi in vista del rinnovo dell’Assemblea di Strasburgo.

Il primo è Filippo Taddei, docente di Economia politica presso la John Hopkins University, responsabile economico del Partito democratico e fautore di un progetto finalizzato a rientrare nei tempi e negli obiettivi del Fiscal Compact evitando manovre da 40-50 miliardi annui.

Il secondo è Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento di Studi e Ricerche dell’Istituto Bruno Leoni e appassionato fautore di una riforma liberista dell’economia italiana, nonché fresco consigliere del ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi.

Il terzo è Antonio Maria Rinaldi, professore di Finanza aziendale nell’Università “Gabriele D’Annunzio” di Pescara da tempo in trincea contro il percorso di unificazione monetaria grazie a libri come “Il Fallimento dell’Euro?” e “Europa Kaputt,(s)venduti all’euro”.

Perché è una chimera l’abbandono della valuta unica

L’ipotesi di fuoriuscita dalla moneta comune, spiega Filippo Taddei, è una provocazione culturale non fondata: “Bisogna chiedersi cosa accadrebbe nel caso di un annuncio del genere. Tutti ritirerebbero i propri risparmi – una ricchezza patrimoniale pari a 8,5 miliardi di euro – per proteggerli anziché vederli svalutare nella nuova lira. Si metterebbe in moto una corsa a convertirli in valute forti come sterlina o dollaro”. Un passaggio costoso e difficile da governare, analogo a quanto avvenuto in Argentina quando il governo di Buenos Aires abbandonò il cambio fisso con la divisa Usa.

L’economista bolognese riconosce che una lira svalutata permetterebbe di vendere ed esportare a buon prezzo i nostri prodotti. Ma nel frattempo, precisa, l’Italia dovrebbe negare tutti i debiti contratti in euro, stracciando i contratti stipulati e provocando una reazione negativa nei partner commerciali, negli acquirenti delle nostre merci, nei creditori. Ci troveremmo tagliati fuori dallo scenario europeo e globale.

I cambiamenti virtuosi provocati dall’adesione all’euro

Carlo Stagnaro rovescia il ragionamento degli euro-scettici: “Nonostante le contraddizioni e gli errori compiuti, l’adozione della valuta unica ha rappresentato una scelta virtuosa per il nostro paese”. Le conseguenze, osserva, sono palesi: la notevole riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico italiano; l’avvento di un regime concorrenziale in tanti settori della vita economica, pur inquinato dal 50 per cento di spesa pubblica e di pressione fiscale rispetto al PIL e dalla conservazione di un forte ruolo dello Stato nel mercato; l’attenzione crescente nel ceto politico e tra i cittadini alla solidità del bilancio, grazie al venir meno della “scorciatoia della svalutazione valutaria, dell’aumento dell’inflazione, delle strategie protezionistiche”. L’euro, in altre parole, ci ha costretto a intraprendere politiche virtuose.

La moneta comune ha tradito la promessa europea

Rivendicando uno spirito di “autentico europeista”, Antonio Rinaldi ritiene invece le politiche monetarie una minaccia al percorso di unificazione comunitaria. Il requisito per far entrare in vigore una valuta unica, rileva, era la creazione di un mercato comune fondato su condizioni economico-sociali uniformi. Presupposto che non è stato realizzato.

Ritornare a una piena sovranità monetaria, osserva, non sarà una passeggiata e richiede un piano di governo di eventuali emergenze provocate da shock esterni. Rinaldi ha poche certezze. Ma è persuaso che una svalutazione o un riallineamento flessibile del nostro cambio monetario restituirebbe all’Italia un valido strumento di politica economica, conforme alla nostra realtà produttiva rispetto al modello ritagliato sulle esigenze della Germania. “Dovrebbe anzi essere Berlino ad abbandonare l’euro. Strada preferibile rispetto allo sforamento dei parametri di stabilità finanziaria, che produrrebbe un aumento del passivo di bilancio e dunque del prelievo fiscale”.

Nessun nesso tra euro e crisi italiana

Riflessioni che suscitano una dura reazione in Taddei: “Non esiste alcun legame tra adozione della moneta unica e crisi economica italiana. Le sue cause vanno ricercate nelle responsabilità del ceto politico nazionale, colpevole di aver rinunciato alle necessarie riforme intraprese negli anni 2000 dal governo tedesco di Gerard Schroeder, capace di far rinascere la grande malata d’Europa”.

Le produzioni per cui eccellevamo sul piano globale negli anni Settanta e Ottanta, rimarca il rappresentante del Pd, oggi non sono pensabili a causa del protagonismo dei paesi emergenti. L’unica strada è ripensare senza alibi il nostro modello di sviluppo. Perché “non possiamo tornare al trucco della svalutazione monetaria, che si ritorce puntualmente nell’odiosa tassa dell’inflazione a carico dei lavoratori dipendenti”.

No all’ossessione dell’inflazione

Nessun trucco, replica Rinaldi. Ai suoi occhi è il controllo ossessivo dell’inflazione e il dogma della stabilità dei prezzi, radicato nella mentalità e nella storia tedesca, che porta a strategie deflazionistiche e all’incremento della disoccupazione. Lo studioso fa l’esempio di diverse realtà aderenti all’Unione Europea ed estranee all’area della valuta unica: “Regno Unito, Danimarca, Polonia, Norvegia, con le loro valute nazionali soggette a svalutazione rispetto a un euro sopravvalutato del 30 per cento, proteggono l’economia domestica e registrano tassi elevati e continui di crescita e di lavoro, nonostante gli effetti della tempesta finanziaria del 2007-2008”.

La priorità  è il valore effettivo dei salari

La lunga e drammatica stagione degli anni Settanta, risponde Taddei, rivela come non vi sia nessuna correlazione tra aumento dell’inflazione e sviluppo produttivo. Mentre Stagnaro evidenzia l’importanza del potere effettivo di acquisto di un salario rispetto al suo valore nominale: “Altrimenti si resta vittime dell’illusione vissuta dall’Italia negli anni ruggenti dell’inflazione galoppante”.

L’elogio della strategia di Mario Draghi

Il vero problema da affrontare, afferma l’economista bolognese, è mutare la politica di gestione della moneta unica. Per attribuire le risorse alle persone intelligenti e artefici di progetti innovativi è necessario generare un efficiente mercato del credito. Finora, precisa Taddei, l’euro non è stato in grado di allocare i quattrini in modo intelligente. Il preannuncio di Mario Draghi relativo a un intervento monetario della BCE per mille miliardi di euro va a suo avviso nella giusta direzione.

Lo studioso ricorda che il Trattato di Lisbona attribuisce alla Banca centrale europea il compito di mantenere un tasso di inflazione attorno al 2 per cento. Attualmente ci troviamo ben al di sotto di tale soglia. Pertanto l’Eurotower può avvicinarsi all’obiettivo in una forma nuova. Anziché immettere liquidità nelle casse degli istituti creditizi privati che rinunciano a elargire prestiti a famiglie e imprese, l’istituto finanziario può acquistare una mole enorme di titoli di Stato sgravandone il peso dai forzieri delle banche e liberando risorse per l’economia reale.

L'euro della discordia. Parlano Rinaldi, Stagnaro e Taddei

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