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Domenica 25 maggio l’Ucraina sarà chiamata ad eleggere il proprio presidente. Il favorito è il magnate del cioccolato Petro Poroshenko (se n’era già parlato su Formiche quasi due mesi fa), che con ogni probabilità staccherà di diversi punti la pasionaria Tymoshenko, finita nel tempo in mezzo a vicende discutibili e poco chiare che ne hanno prodotto il calo di consensi.

La situazione attorno ai seggi sarà tesissima: l’Osce ha inviato circa 2000 osservatori per controllare il regolare procedere delle operazioni, tuttavia già a Donetsk i ribelli separatisti hanno fatto sapere di essere intenzionati a bloccare il voto – avrebbero sequestrato i timbri elettorali.

Putin, invitato più volte durante queste ultime settimane a gesti distensivi, come al solito è stato ambiguo. Da un lato ha definito le elezioni “irregolari”, dall’altro ha detto che comunque rispetterà i risultati, non garantendo, comunque, per la stabilità territoriale del paese.

Con ogni probabilità, l’interessamento su quello che succede nelle urne ucraine, sarà il secondo dei pensieri di Mosca domenica. Come non pensare che il Cremlino non segua con più attenzione le altre elezioni in programma: quelle per il Parlamento europeo.

Sebbene i primi exit polls dall’Olanda, diano gli anti-europeisti di Wilders (il capofila della trasposizione politica del sentimento) meno forti del previsto, l’Ukip di Nigel Farage nel Regno Unito sembra aver raggiunto il ruolo di terzo partito – circostanza storica, che porta una vecchia forza marginale, ad annoverarsi tra le principali del paese.

Ed è proprio a questo ribaltamento di forze che guarda Putin con interesse: insieme a quello che potrebbe accadere con i vari Front National e Jobbik, ma anche Syriza, Movimento 5 Stelle e alle parti omologhe in Austria e Danimarca.

Inutili fantasiosi sforzi per costruire possibili condivisioni ideologiche, o di valori e progetti, sia chiaro che l’occhio di zar Vlad si fissa solo su un aspetto pragmatico di stretto interesse personale: l’euroscetticismo, che si declina in definitiva in anti-europeismo. Disunire l’Europa, insomma.

Denitsa Raynova e Ian Kearns hanno prodotto per European Leadership Network, un’interessante guida per tracciare i segni delle possibili politiche estere degli otto partiti sopra citati – i principali euroscettici su piazza.

Quello che si dipinge, è un futuro distopico, che i tradizionali partiti politici dovrebbero aver messo bene nel mirino durante la campagna elettorale, per trasmettere l’importanza di marginalizzare queste parti politiche.

Tutti gli otto partiti presi in considerazione, vorrebbero i propri stati fuori da un’UE svenata dei propri poteri sovranazionali. Molti hanno una visione simil-protezionistica sul commercio, a cui abbinano la volontà di ridurre la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione – circostanza questa, utilizzata anche come leva per la riduzione dell’immigrazione. Interessi nazionali prima di tutto dunque, compreso sulla scelta della moneta: anti-Europa, si trasforma facilmente in anti-Euro, o viceversa.

L’ammirazione per Putin, non è troppo estroversa e tracciabile – anche se Marine Le Pen, per esempio, ha ammesso di avere il presidente russo come guida: tra l’altro, la francese la scorsa settimana è volata a Mosca, dove ha incontrato il Chairman della Duma Sergey Narishkin, che si è complimentato con lei del successo del Front National.

Ma l’ammirazione comunque c’è, anche se velata: il presidente russo è visto come il prototipo di leader no-nonsense, tanto che molti addebitano proprio all’UE la colpa della situazione in Ucraina.

Putin ricambia, interessato, per almeno due ragioni. La prima: avere a che fare con un’Europa disarticolata o anche sfasciata, permetterebbe a Mosca di andare a trattare con nazioni che sono individualmente più piccole della Russia, imponendo, a quel punto con più facilità, prezzi e politiche – questo, inutile dire, che viene relativamente meno se l’Europa si rappresenta come corpo unico e unito. Allo stesso tempo, l’atomizzazione dell’Unione europea, l’allontanamento dal progetto dell’unità economica (l’Euro), il cambiamento degli assetti strategici (l’alleanza con gli Stati Uniti, per esempio), a cui seguirebbe un potenziale indebolimento militare, sarebbero tutte circostanze che renderebbero i singoli paesi europei, più manipolabili da potenze come Russia e Cina.

La seconda delle ragioni per cui Putin tiferà per la vittoria dei partiti della non-Europa, è legata alla possibilità di rompere l’unità anche come sentimento diffuso. Occorre non dimenticarci, che una delle radici da cui è partito l’intervento militare e la crisi in Ucraina, è la volontà di Mosca – e di Putin – di tenere proteste e voglie come quelle di Piazza Maidan, fuori dai propri confini. L’avvicinamento dei desideri di libertà e diritti, rappresentati che piaccia o no dall’Europa, era (ed è) il pericolo per la stabilità del potere putiniano. Dipingere tutti gli oppositori – da Navalny alle Pussy Riot, fino agli Euromaidan – come “nazisti”, rientra in una campagna di propaganda studiata per far leva sui retaggi storici del popolo russo: i nemici nazisti, sconfitti con gloria e sofferenze.

Putin ha estremo interesse a vedere, e far vedere alla sua gente, che l’Europa non rappresenta più quel sogno, o quel luogo, migliore. Putin vuole dimostrare ai russi e ai paesi dove l’influenza russa è fortemente messa a repentaglio dallo scorrere dei tempi, che unirsi all’Europa non è il passo definitivo per l’emancipazione, tanto che, chi già c’è dentro, cerca di uscirne con forza.

Ci si potrebbe addirittura azzardare a dire che i risultati di quegli otto partiti, interessano il Cremlino molto più delle urne di Kiev.

Tutto diventa, una questione di sopravvivenza.

 @danemblog

Ucraina, le altre elezioni a cui guarda Putin

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