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I dati di sequenziamento del DNA continuano a rivelare nuove e inattese informazioni sul nostro genoma aprendo nuove possibilità terapeutiche.

Un caso è quello raccontato da Jocelyn Kaiser sull’ultimo numero di Science. Tutto è iniziato in Australia con un studio su due fratelli affetti da una rara distrofia muscolare, una chiara indicazione di malattia genetica ereditaria. In questi casi la prima cosa da fare è identificare il gene la cui mutazione o delezione è responsabile della malattia. Durante questi studi i ricercatori diretti da Kathryn North dell’Università di Sidney, tra cui Daniel McArthur, hanno fatto una scoperta inattesa: entrambi i genitori dei due fratelli mancavano delle due le copie (alleli) del gene per una proteina muscolare la “skeletal-muscle actin-binding protein alpha-actinin-3” (ACTN3). Questo escludeva che il gene fosse coinvolto nella malattia ma al contempo sollevava interrogativi sul significato della delezione. Cosa ancora più sorprendente, lo stesso gene risultava inattivato un percentuale significativa della popolazione Australiana senza nessuna correlazione con evidenti problemi di salute. Probabilmente il fatto che gli effetti della inattivazione siano quasi trascurabili è dovuto alla presenza nel nostro genoma di un gene simile a ACTN3 che potrebbe in qualche modo compensare l’effetto. I ricercatori hanno anche osservato che l’inattivazione del gene è più frequente negli atleti di discipline come lo sprint e il salto suggerendo la mancanza di ACTN3 possa migliorare le prestazioni in sport in cui è richiesto uno sforzo muscolare intenso e breve. C’è da chiedersi se in un prossimo futuro qualcuno possa pensare di utilizzare questa informazione per sviluppare un nuovo tipo di “doping”, ad esempio inventando farmaci che inibiscono selettivamente ACTN3.

Comunque il caso di ACTN3 costituisce il presupposto per cercare altri geni che quando deleti o inattivati non creino danni importanti all’individuo ma possono conferire un vantaggio, almeno in certe situazioni. Ad esempio la mancanza di un gene che codifica per una proteina presente sulla superficie delle cellule rende le persone resistenti all’HIV1 senza avere effetti deleteri sulla salute. Di qui l’idea di sviluppare dei farmaci che blocchino l’attività della proteina e possano proteggere dall’AIDS.

Partendo da questa idea una serie di ricercatori, tra cui MacArthur, hanno cominciato ad analizzare genomi già sequenziati alla ricerca di geni mancanti o inattivati. Analizzando i genoma di 185 individui sani i ricercatori hanno fatto una scoperta sorprendente: ogni persona sana ha in media circa 80 geni di cui una delle due copie presenti nel genoma è inattivata (eterozigoti) e 20 che presentano inattivazione di entrambe le copie geniche (omozigoti). Tra questi geni molti codificano per proteine dell’olfatto, un senso molto utile nelle popolazioni primitive dedite alla caccia ma oggi meno utilizzato. Altri geni della lista rappresentano potenziali bersagli terapeutici come nel caso del gene che protegge da infezioni da HIV. Un altro esempio pubblicato recentemente è quello di un gene che quando mutato riduce del 65% il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2. Oppure il gene PCSK9 che quando inattivato riduce il livello di colesterolo nel sangue di circa il 60% e protegge da malattie cardiocircolatorie. Attualmente alcune industrie farmaceutiche stanno appunto sviluppando farmaci anticolesterolo che hanno come bersaglio proprio la proteina codificata dal gene PCSK9.

Chiaramente l’approccio di cercare geni che quando inattivati danno un vantaggio e che potrebbero rappresentare bersagli per trattamenti terapeutici non è scevro di problemi perché le conseguenze della delezione potrebbero non essere sempre evidenti. Potrebbero esserci effetti rilevanti in un gruppo di individui o in certi momenti della vita o in certe condizioni specifiche.

Un modo per ovviare a questo problema potrebbe essere quello di analizzare delle popolazioni che per lunghi periodi storici sono state isolate ad esempio per ragioni geografiche. Spesso gli isolati genici, questo è il termine tecnico usato per definire popolazioni che a causa dell’isolamento geografico e della scarsa immigrazione hanno conservato nel corso dei secoli dei caratteri genetici omogenei e chiari, mostrano un’incidenza di specifiche malattie diversa da quella delle popolazioni fiancheggianti. Identificare in queste popolazioni dei geni la cui inattivazione diminuisce la frequenza di certe malattie potrebbe fornire indicazioni utili per lo sviluppo di nuovi farmaci.

In Italia esistono diversi isolati genici che sono stati caratterizzati in dettaglio. In questo campo diversi ricercatori CNR hanno dato contributi molto significativi. Ad esempio la Dott.ssa Toniolo del nostro Istituto che ha caratterizzato una popolazione della Val Borbera al confine tra Piemonte e Liguria. Un altro caso è quello delle popolazioni Sarde caratterizzate dal gruppo del Dott. Cucca, direttore dell’Istituto Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica di Cagliari. Studiando proprio la genetica delle popolazioni sarde il gruppo del Dott. Cucca ha recentemente identificato una serie di geni coinvolti in alcune malattie autoimmuni.

I predatori dei geni perduti

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