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Se il destino di una qualunque cosa è scritto nel suo genoma, come vorrebbe certa scienza riduzionista, allora potrebbe dirsi senza tema di smentite che il destino di tirannia alla quale ci ha condannato il Pil era implicito nel suo stesso definirsi come grandezza statistica. Ciò che il Pil implica, il pensiero ad esso sotteso, è di per sé dispotico.

Talché non a caso questa grandezza è divenuta il denominatore comune (si misura tutto in rapporto al Pil) di un qualunque ragionamento economico contemporaneo. Anche se forse è troppo generoso qualificarlo così, trattandosi non di economia ma di econometria. E il fatto che molti confondano queste due discipline è la misura più evidente del degrado del nostro discorso economico, ridotto a coacervo di equazioni astruse in virtù delle quali i governi esercitano i loro dispotismi mascherati. Rappresentazioni pressoché inintellegibili della società servono a giustificare chiarissime decisioni politiche.

D’altronde perché stupirsi: il Pil, in quanto indicatore, incarna perfettamente lo spirito mercantilistico del nostro tempo proprio per il suo includere fra le sue costituenti gli assi portanti del mercantilismo: l’intervento pubblico e le esportazioni. Attenzione: con ciò non intendo che sia insensato. Voglio solo dire che bisogna saperlo e averne consapevolezza, sennò non si capisce tutto il resto.

Non si capisce, ad esempio, perché negli anni ’30, quando il Pil fu inventato, persino l’Unione sovietica si convertì a tale statistica totalitaria. L’unica differenza fra il Pil americano (e quindi europeo) e quello sovietico era che quest’ultimo si chiamava NMP (net materiale product) e che non comprendeva i servizi nel computo del prodotto ma, molto sovieticamente, solo il prodotto industriale. Falce e martello, perciò, con preferenza per il martello.

Ma non ci affrettiamo, perché tanta strada è stata fatta per arrivare a questa novella divinità – il Pil – che tutti celebrano, ora con timore ora con reverenza, spesso ignorandone senso e genealogia, per pura adesione spirituale e luogocomunista. E anche qui, non a caso. E’ inerente alla divinità suscitare atti di fede.

Abbiamo già visto come la contabilità nazionale, della quale il Pil è un prodotto di punta, trovi il suo fondamento in una serie di convenzioni statistiche frutto di accordi internazionali. La radice del nostro presente risale addirittura al 14 dicembre 1928, quando la Società delle Nazioni approvò la convenzione internazionale sulle statistiche economiche.

I vari paesi aderirono nel corso degli anni ’30. Poi, dopo la guerra, arrivò l’Onu che emendò quella convenzione arrivando alla base condivisa dalla quale germinerà il nostro europeo Sec. E questo, anche se in breve, dà conto della radice omologante della contabilità e della ragione principale per la quale è stata concepita: il controllo e la comparabilità. Ossia l’anticamera dell’omologazione.

Anche qui: non dico che sia insensato. Lo scopo di questo breve viaggio è aumentare la consapevolezza dei processi che conducono alla rappresentazione condivisa che chiamiamo Mondo. Facendosene un’idea si può decidere se criticarli o meno. Non si può cambiare ciò che nemmeno si conosce.

Ma prima di raccontare come si sia arrivati alla definizione del Pil e alla sua conformazione, è utile fare un passo ancora più indietro, alle origini addirittura di quella miracolosa disciplina che si chiamava Aritmetica politica, l’antesignana delle nostre econometrie e statistiche economiche che danno sostanza alla contabilità nazionale.

Come ogni cosa che riguardi la sostanza dell’economia moderna, al fondamento dell’aritmetica politica ci sono fatti di guerra. E l’epicentro di tali innovazioni, non a caso, è l’Inghilterra del XVII secolo.

I manuali attribuiscono a sir William Petty l’aver iniziato i primi tentatativi di calcolo del reddito nazionale. Ma sarebbe poca cosa questo sforzo, se non si capisse perché mai un gentiluomo inglese di quattrocento anni fa abbia voluto cimentarsi con una tale astruseria. Petty condivide il merito di tale innovazione con Giovanni Grand, suo collega nella Royal Society che sempre Petty fondò per dare sostanza scientifica alle sue elucubrazioni.

Ma rimane la domanda: perché lo fece?

Siamo negli anni di Cromwell, il condottiero “democratico” che guidò la rivolta dei “parlamentaristi” contro i “realisti” di re Carlo I, fino a farne decretare l’esecuzione. Cromwell, fra le altre cose, decise una spedizione militare contro gli irlandesi, che avevano approfittato dei torbidi londinesi per sottrarre, nel 1641, ampi territori alla Corona. E Cromwell poteva pure essere avverso alla Corona, ma era pur sempre un inglese.

La spedizione fu fruttuosa, nel senso che fece strame degli irlandesi, che ancora ricordano Cromwell come un incubo.

Quando si finì di sparger sangue si pose il problema di cosa fare delle tante terre coltivabili sequestrate agli indigeni. La risposta fu ovvia: furono assegnate ai finanziatori della spedizione, ai soldati che avevano combattuto e ad alcuni coloni. All’uopo fu scritto l’Act for the settlement of Ireland.

Questa spartizione di spoglie rese necessario l’intervento di un valido contabile per valutare correttamente il bottino. Ed ecco che arriviamo a Sir Petty, che nel 1652 fu spedito in Irlanda con l’incarico di stabilire il valore dei terreni confiscati, atto propedeutico all’assegnazione ai nuovi proprietari, ma soprattutto al calcolo delle imposte che costoro avrebbero dovuto pagare al Regno.

Fu in quest’occasione che Petty maturò il suo interesse per la socio-economia. L’esperienza irlandese lo condurrà, nel 1662, alla pubblicazione del suo primo libro, il Treatise of taxes and contributions, cui seguiranno, nel 1665 il Verbum Sapienti, il Political Arithmetick e Political Survey (1672) e più tardi il Quantulumcunque concerning money. Fu Petty, per dire della sua importanza nella nostra piccola ricognizione dell’econometria, ad avere l’idea che si potesse calcolare il valore di una terra attualizzando il fusso degli affitti futuri.

E’ con Petty, insomma, che nasce l’economista-econometrista, che diventa una sorta di araldo del principe, grazie al quale l’autorità spreme ricchezza dai cittadini.

L’economia moderna, perciò diventa lo strumento ideale per far sprigionare la potenza dei re e la contabilità nazionale, di conseguenza, un fatto eminentemente politico. Vi parrà strano guardando i fatti con gli occhi di oggi, ma i molti aritmetici politici che succedettero a Petty, quelli che oggi chiamiamo statistici, subirono persecuzioni e le loro opere roghi, qualora i loro calcoli finissero invisi al sovrano.

La gloriosa evoluzione della contabilità nazionale segnò l’inizio dell’epopea degli stati moderni, fino a quando, nel Novecento, si arrivò alla formulazione degli standard internazionali di cui discorriamo oggi.

Ed è nella temperie del primo dopoguerra, gli anni Venti e soprattutto gli anni Trenta americani, che mette radici il Pil.

Ma questa è un’altra storia.

(1/segue)

Genealogia del Pil – L’araldo di Cromwell

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