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Nella campagna elettorale in corso, c’è quasi una congiura del silenzio sul “semestre europeo”, i sei mesi dal primo luglio 2014 in cui l’Italia avrà la presidenza degli organi di governo dell’Unione Europea (UE). Sono sei mesi cruciali in quanto coincidono con l’inizio della legislatura del Parlamento Europeo (PE) che verrà eletto tra il 22 ed il 25 maggio.

LA SFIDA DEL 25 MAGGIO

Ciò che l’Italia potrà fare nel semestre, e l’’inprint che potrà dare sui cinque anni di legislatura del PE, dipende, in gran misura, da quali saranno i risultati nel nostro Paese delle elezioni del 25 maggio. Come di consueto, verranno letti in chiave interna più che in chiave europea. Se saranno tali da preludere a una fase di incertezza e tensioni, nonché a un (peraltro già annunciato) arresto di un processo di riforme sino ad ora solamente annunciati, è verosimile pensare che i governanti italiani saranno avviluppati in vicende interne, eventuali rimpasti e anche possibili cambi di governo, ove non addirittura preparazione di elezioni nella primavera 2015. In questa ipotesi, è difficile pensare che la Presidenza italiana degli organi di governo europeo possa incidere tanto nel medio periodo (le decisioni del Consiglio Europeo dell’ottobre 2014) quanto nel più lungo termine l’impostazione della legislatura per i cinque anni. In un altro scenario, il governo in carica verrebbe rafforzato e in tal caso avrebbe tutte le carte per farsi ascoltare in Europa sui temi tanto di breve quanto di medio e lungo termine.

RENZI L’EQUILIBRISTA

I sondaggi pubblicati sino al termine della settimana scorsa, sembrano mostrare come estreme queste due ipotesi. Ora il governo conta sue tre maggioranze: una per il programma presentato alle Camere e su cui ha avuto la fiducia; una seconda, ampliata a Forza Italia; ed una terza, con attenzione alla sinistra PD ed il SEL, per certi settori della politica sociale. E’ verosimile che, dopo il voto del 25 maggio, lo sgabello avrà solo due gambe, e farà fatica a tenersi saldo ed in piedi. Se ne uscirà con una sola, dovrà fare da equilibrista.

LA STRATEGIA FIACCA DEL GOVERNO IN EUROPA

In base a questa premessa, mi sembra che la strategia annunciata più volte dal Presidente del Consiglio – flessibilità in cambio di riforme realizzata od in avanzato corso di realizzazione, da ottenersi al Consiglio Europeo di ottobre – è scarsamente attuabile. In primo luogo, è una strategia che sa tanto di Rapporto Brandt del 1980, quindi ha ormai esaurito (anche concettualmente) i propri tempi e i propri compiti. In secondo luogo, comporta non solo una decisione del Consiglio ma una revisione, o almeno un protocollo interpretativo dei Trattati – tema che nessuno in questa fase vuole non solo toccare ma neanche sfiorare.

CONSIGLI NON RICHIESTI AL GOVERNO ITALIANO

Mentre a fonte del disagio sociale che permea numerosi Stati dell’UE, e tenendo presente che la prossima legislatura del PE potrebbe essere più attenta a tale disagio di quella che volge al tramonto, potrebbe essere utile puntare su incidere su una politica economica europea maggiormente “inclusiva” di quella degli ultimi anni, ove non lustri. Attenzione, mentre altri propongono di integrare la politica economica europea con indicatori sociali, l’Italia potrebbe ricordare che la politica economica è una ed una sola. Quindi non si tratta di aggiungere elementi integrativi o complementari, ma di chiedere che i parametri di stabilità finanziaria (pareggio di bilancio, tetto all’indebitamento, vincoli sullo stock del debito) abbiano come loro controparte parametri semplici, chiari e trasparenti del “disagio sociale”, oltre il quale gli stessi parametri di stabilità finanziaria diventano futili.

COME RILEVARE MEGLIO L’EQUITA’

Ho suggerito altrove che per dare rilievo alla equità (nella comunicazione politica e pubblica) si dovrebbe utilizzare la crescita o meno dei redditi e dei consumi della famiglia “mediana” più che del Pil o del Pil pro-capite; sarebbe un indicatore forse grossolano, ma eloquente dell’aumento o meno delle diseguaglianze. In secondo luogo, si potrebbe ampliare “l’indice del disagio” (misery index) elaborato negli anni Settanta da Arthur Okun (sommatoria di inflazione e disoccupazione) arricchendolo con il tasso di povertà e il coefficiente di Gini sulle disuguaglianze. Ne risulterebbe un indicatore abbastanza semplice ma eloquente per indicare dove la nave va e quali correzioni di rotta apportare. Naturalmente si potrebbero prendere percorsi più complessi, quali quelli del rapporto del 2009 redatto da un team guidato da Stiglitz e Fitoussi su mandato del governo francese o quello che stanno conducendo Cnel e Istat. Ma la complessità renderebbe più difficile sia un negoziato a 28 sia la comunicazione con i cittadini. Si potrebbero, poi, gettare le basi per l’uniformità dei sistemi previdenziali – un vero ostacolo alla mobilità del lavoro – come primo passo per un’armonizzazione dei sistemi di welfare.

Vi spiego perché la strategia europea di Renzi e Padoan è fiacca

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