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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il cameo di Riccardo Ruggeri apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Da quando ho smesso di fare il manager operativo (17 anni fa), ogni primavera passo qualche tempo a New York: non faccio nulla, non è una vacanza ma non è neppure un lavoro, guardo, annuso, immagazzino sensazioni, che poi mi serviranno per riflettere, forse per scrivere. Ho l’ambizione di cogliere «segnali deboli per capire i trend del futuro». È probabile che sia una banale illusione, vista la configurazione umana e professionale della «rete» da me scelta (persone comuni) per «capire» aspetti considerati dagli esperti molto complessi. Ho seguito la teoria di Camus, che sui temi sociali trascurava i «maestrini del pensiero», ascoltando solo le persone comuni.

CHE LIBRO STO LEGGENDO

Per prepararmi all’appuntamento di maggio, ho incontrato un amico conosciuto negli anni ’90 a Londra, dove allora lavoravo e vivevo, mi ha aggiornato sull’atmosfera (questo mi interessava) che si respira ora nelle Banche d’Affari della City (ci sto scrivendo un «cameo»). Nel frattempo, ho superato la metà del libro (700 pagine), che sta spopolando nei salotti radical chic di New York: «Il Capitale del XXI secolo», del francese Thomas Piketty. Sono pronto a partire.

LE SUGGESTIONI DI DI PIKETTY

Certo, non si può recensire un libro avendone letto solo la metà, ma lungi da me volerlo fare, a me interessano le suggestioni che emana. Tecnicamente è un libro perfetto, e lo vedi subito: ha raccolto i dati di quei Paesi ove l’imposta sul reddito è presente da tempo (Occidente, Cina, India, parte del Sudamerica), quindi i dati sui patrimoni, utilizzando le statistiche delle successioni. Infine si è focalizzato su Europa e Giappone per capire il rapporto fra una società «patrimoniale» ed una «oligarchica». Ciò che eccita l’autore è però il mitico «trentennio dorato» (dal ’45 al ’75) ove le «diseguaglianze» (prepariamoci, una parola che presto sarà di moda, come gli «ultimi» di Bergoglio), diminuirono, sia per la crescita economica e demografica, sia per l’aumento delle tasse sui ricchi.

PERCHE’ E’ UN LIBRO RUFFIANO

È un libro ruffiano, già dal titolo che scimmiotta Marx, dal tema politicamente corretto (le «diseguaglianze»), come lo sono in genere i keynesiani, che notoriamente danno il massimo nei talk show, le cui claque si sperticano in applausi ad ogni loro affermazione, sempre a metà strada fra il marxismo e il cristianesimo francescano. Peccato che le ricette di Keynes, come tutte le altre, a volte funzionino, a volte no.

LE DIFFERENZE TRA KEYNES E I KEYNESIANI

A differenza dei suoi epigoni, Keynes scriveva però con un linguaggio letterario e un inglese eccelso, anche se i temi su cui si confrontava erano più vicini alla divinazione che alla scienza. Anche lui era posseduto, dall’ossessione intellettuale di una «società ordinata» e di un «mondo migliore», trascurando di porsi la domanda chiave: «Chi paga?». O meglio, lui dava la risposta, come la dà Piketty: ci pensano le tasse, vuoi sui «grandi patrimoni», vuoi sulla «ricchezza accumulata».

I TRUCCHETTI DEI PATRIMONALISTI

Dov’è il trucco? Lo è sull’interpretazione del termine «ricchezza» accumulata» (non lo dicono esplicitamente, ma per loro riguarda le classi medio-basse). Al solito, il problema non sono le analisi (nel libro di Piketty, sono sontuose) ma le ricette. Che purtroppo non ci sono, o meglio sono le solite, che dimostrano di funzionare nelle crisi convenzionali, non in quelle drammatiche come il ’29 o questa. Da anni leggo la Grande Crisi nell’ottica di un imprenditore e di un manager (che fa parte della classe medio-bassa della società), la vedo come una grande opportunità, anzi una benedizione di Dio, per mutare nostri comportamenti folli, impostici dai Blankfein, dai Soros, dai Buffet, dai giornali liberal che li supportano, dai politici (Obama, Cameron, Merkel, Hollande, e domani Renzi) che li rappresentano. Costoro, da un lato vogliono trasformarci in «consumatori seriali», dall’altro vogliono sottrarci, attraverso le tasse, i nostri patrimoni (di piccola entità, ma numerosi) che noi e i nostri padri abbiamo accumulato (la «patrimoniale diffusa», è la loro ossessione).

IL VERO SIGNIFICATO DEL SUCCESSO DEL LIBRO DI PIKETTY

Considero l’esaltazione, meglio il battage, come fosse il lancio di una bevanda gassata, dell’edizione in lingua inglese del libro di Piketty (dopo il modesto successo dell’edizione francese e il suo personale insuccesso sulla tassa «Depardieu») come un segnale debole di difficoltà dell’establishment liberal oggi al potere. Mi chiedo, perché? Che si rendano conto che la loro strategia del «gioco delle tre carte», con la quale campano da trent’anni alle nostre spalle, stia facendo acqua? Che la «soluzione guerra», che ci ha salvato dalla Crisi del ’29, sia oggi improponibile? Comunque, tranquilli: l’Occidente non sarebbe neppure attrezzato per farla una guerra, al di là di ridicole sanzioni non si va.

L’ALLEGRIA DEL NAUFRAGIO

Un fatto mi pare acquisito: sempre maggiori fette di «sudditi» stanno perdendo le «illusioni», sono entrati nella fase della «disperazione», anticamera di quella fase che incombe, dalla parola che temiamo persino pronunciare: «rivolta». L’Occidente è seduto sulla faglia di Sant’Andrea, sappiamo, come lo sanno i californiani, che il terremoto verrà, non sappiamo quando. Ungaretti, nel ’17, la chiamava l’allegria del naufragio.

amerigo

Perché il libro di Piketty spopola nei salotti radical chic

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