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A chi giova l’intervento militare russo in Crimea? A prima vista sembrerebbe che i russi ne uscirebbero vincitori assumendo di fatto, se non di diritto, il controllo della penisola e forse anche della parte orientale dell’Ucraina. Nel contempo l’Occidente si vedrebbe perdente per via del sostanziale spezzarsi dell’integrità territoriale del Paese e del suo sogno di avvicinamento all’Unione Europea. Ma a guardare con gli occhi del dopo, ci si accorge che in prospettiva non ci sarà alcun vincitore, se non si troverà una riconciliazione tra le due anime profonde della nazione, quella ucraina e quella russa.

IL CROLLO ECONOMICO
Si tratta infatti di un paese che per oltre due secoli è stato parte integrante del dominio russo e solo negli ultimi 23 anni ha conosciuto un’indipendenza, benché molto agitata dalla contesa tra le forze filorusse e quelle nazionaliste, le quali vedono nell’associazione all’UE un presidio della loro indipendenza. Sullo sfondo campeggia una situazione economica difficile: dopo lo shock della crisi globale (-14,8% PIL 2009) l’economia non è riuscita a recuperare i livelli pre-crisi, la disoccupazione rimane elevata (circa 8%), l’ambiente per l’imprenditoria inadeguato per una crescita sostenuta come richiesto, le vecchie industrie di stampo sovietico ancora molto forti, la dipendenza dalle fonti energetiche russe notevole e il debito estero oltre il 70% del PIL.

I russi, ben consapevoli di questa grande vulnerabilità dell’Ucraina, hanno sempre avuto interesse a mantenere il paese in una condizione di forte dipendenza dalla loro economia come garanzia tanto per la comunità di origine russa, quanto per il controllo delle aree in cui hanno importanti basi militari, come la Crimea. In questa ottica, qualsiasi accordo che avvicini il paese all’orbita economica dell’UE è visto come una minaccia alla loro secolare sfera di controllo e ne innesca quindi reazioni perfettamente in linea con la loro tradizione di ricorso all’interferenza interna e all’intervento armato, come si è visto nell’Europa Orientale dal 1945.

SCENARI DELL’INTERVENTO
Questo approccio tuttavia stride con i tempi attuali e comporta costi ben maggiori che nel passato, perché in un mondo reso sempre più libero da barriere per effetto delle nuove tecnologie e dell’interconnessione delle economie, l’autodeterminazione delle nazioni nelle scelte di governo è divenuta regola molto difficile da infrangere, se non per periodi troppo brevi per giustificarne il costo.

La conferma si ha guardando al futuro prossimo. Dopo l’intervento armato gli scenari si sono fatti più complicati sia per i russi che per l’Occidente. Per i governanti russi è illusorio credere che le armi del petrolio e gas, ed i sostanziosi investimenti occidentali nella loro economia possano dissuadere l’Occidente dal reagire con sanzioni reali. Potranno probabilmente sfruttare le divisioni nel campo occidentale per aggirare alcune sanzioni, visto che paesi, come Germania ed Italia, hanno maggior bisogno delle fonti energetiche provenienti dalla Russia e sono più esposti finanziariamente verso di essa. Ma sanno bene che, per quanto inefficaci possano essere le sanzioni, verrebbe meno in ogni caso quello spirito di cooperazione con l’Occidente che ha permesso loro di generare le risorse per migliorare considerevolmente il tenore di vita della popolazione rispetto all’era sovietica.

IL SOSTEGNO DELL’OCCIDENTE
Lo sviluppo dell’economia russa dell’ultimo ventennio deve molto all’apporto occidentale, che non è stato soltanto di capitali, ma di valori liberali, apertura culturale, know-how e tecnologie tanto per le loro industrie di base, quanto per i modelli di business. Un apporto che si scorge anche nell’aver dissipato quella continua ostilità esterna che aveva obbligato l’URSS a dirottare immense risorse verso un apparato militare improduttivo di ricchezza. Dell’apporto occidentale i governanti russi hanno ancora bisogno se vogliono mantenere quelle promesse di prosperità sociale che li ha portati al potere. Ricreare invece una via russa alla prosperità in contrapposizione all’Occidente secondo i vieti canoni sovietici li condurrebbe a un’involuzione economica e sociale.

I costi della sanzioni sarebbero alti anche per l’Europa, ma più limitati nel tempo, data la loro capacità di rapido adattamento e l’attitudine all’ampia cooperazione nell’affrontare le difficoltà. Per l’Italia, tuttavia, l’impatto sarebbe più doloroso che per i maggiori partner europei a causa della sua maggior vulnerabilità su molti fronti e della difficile stagione di riforme che deve attraversare per uscire da una stagnazione dovuta a un modello economico-sociale sclerotizzato e superato. A parte le forniture energetiche dalla Russia (circa il 30 del fabbisogno), perderebbe sbocchi importanti per l’export, che costituisce attualmente la principale forza trainante della ripresa, dovrebbe far fronte a discontinuità nell’approvvigionamento energetico con effetti negativi su produzione e consumi, vedrebbe lievitare la bolletta energetica con ripercussioni negative sulla competitività e metterebbe a rischio importanti investimenti diretti in settori dell’economia russa. Il rischio di una nuova spinta depressiva alla crescita economica italiana diverrebbe concreto e difficilmente evitabile se non si vuole compromettere la solidarietà con l’Europa.

Altri scenari ancor più negativi per l’Europa e l’Occidente sarebbero possibili in mancanza di soluzioni accettabili per tutti. È quindi nel reciproco interesse metter da parte rigidità di principio e negoziare per ricucire lo strappo al più presto, perché in questa crisi non vi è alcun vincitore, ma solo perdenti da entrambe le parti.

Salvatore Zecchini è docente di Politica Economica Internazionale all’Università di Roma Tor Vergata, presidente di due working groups dell’OCSE, già direttore Esecutivo del Fmi e vice segretario generale dell’OCSE.

Ecco perché in Crimea tutti usciranno sconfitti

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