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Forze speciali, quali sono (e cosa fanno)

Sono al centro di dibattiti politici, ne parlano leader mondiali, generali ed esperti analisti, nonostante si muovano in (quasi) completo silenzio nei teatri operativi. Le forze speciali dei vari reparti degli eserciti del mondo, sono diventate argomento di discussione pubblica ed uso comune, che collega gli aspetti militari a questione politiche e geopolitiche.

Perché? Si tratta di reparti che fino a qualche anno fa appartenevano ad una categoria misteriosa, venivano impiegati per operazioni dietro alle linee nemiche, per compiere sabotaggi, spesso attacchi ed assassini mirati, attività di raccolta informazioni, liberare ostaggi, mettere al sicuro aree difficili: le loro missioni erano sempre avvolte dal completo segreto militare. Adesso, date le caratteristiche operative, l’impiego di queste unità s’è fatto sempre più necessario per far fronte alle esigenze dei conflitti asimmetrici, come quello siriano o libico, o ucraino: campi di battaglia dove esistono pochi alleati fidati, dove non ci sono fronti di combattimento, e dove è necessario prevenire le mosse dei nemici quanto quelle dei presunti amici e dove i militari ricoprono anche compiti psicologici, mantenendo i contatti diretti con le popolazioni locali, fornendo assistenza e indirizzando l’opinione pubblica. Le Sof, acronimo inglese di Special operations forces, sono sempre più fondamentali: il governo italiano ha proposto un emendamento (in discussione al Senato) per ampliare i compiti delle unità speciali delle Forze armate italiane e permettere agli operatori di ricoprire anche ruoli di intelligence in specifiche missioni, trasformando così, temporaneamente, i militari in un mix di 007 con compiti di raccogliere informazioni (in anticipo) nei teatri operativi.

L’ITALIA

La presenza delle forze speciali italiane nei vari teatri operativi dove i soldati di Roma sono ufficialmente impegnati (Afghanistan, Libano, Somalia) è un dato di fatto.

La Libia. Ultimamente sono circolate informazione in merito ad un impegno dei reparti d’élite italiani anche in Libia, per preparare il terreno ad un’eventuale offensiva contro lo Stato islamico (resa più probabile ed imminente dalla firma di giovedì in Marocco sull’accordo per la creazione di un esecutivo di unità nazionale tra le macro-entità in guerra, Tripoli e Tobruk: certo, come sostiene la BBC, ora bisognerà vedere se l’intesa regge anche sul campo, dove la realtà combattente è molecolarizzata in oltre 200 fazioni; aspetto affrontato anche dal generale Luciano Piacentini, ex capo delle forze speciali dei paracadutisti, su Formiche.net). Daniele Raineri del Foglio, in un reportage dalla Libia uscito il 3 dicembre, ha parlato per primo di forze speciali italiane schierate nell’area prossima al confine tunisino: tra Sabratha e Zuwara, due città note anche per essere i porti di partenze dei migranti, si trova il grande hub Eni di Mellitah, ragione che porta la presenza dei nostri soldati nell’area a livello di interesse nazionale (inoltre, nella zona, fanno base anche diverse altre aziende italiane che fanno affari in Libia). Il motivo è logico, i lavoratori italiani potrebbero essere obiettivi sensibili, e la loro sicurezza deve essere preservata dal governo (anche se in realtà è nota la presenza anche di contractor privati con compiti di close security). La zona occidentale della Libia, è inoltre una delle aree di interesse dello Stato islamico, che sfrutta la disposizione geografica per facilitare i traffici di combattenti dalla Tunisia: per questo le Sof italiane potrebbero trovarsi là anche con il compito di raccogliere informazioni di intelligence sul Califfato. L’articolo di Raineri è stato corroborato da fonti libiche, poi smentito dallo Stato maggiore della Difesa: ma l’informazione è stata poi rilanciata in un altro pezzo uscito un paio di giorni dopo dove il Foglio sosteneva di essere «a conoscenza dell’esistenza di almeno un rapporto specifico sulla situazione in Libia prodotto dal ministero della Difesa italiano, i cui autori sono militari inviati con l’incarico di raccogliere informazioni in quel paese arabo». Va ricordato che furono proprio gli elementi del Comsubin, il Comando incursori subacquei della Marina, a bonificare le piattaforme Eni e renderle di nuovo operative, dopo l’intervento militare internazionale che depose Gheddafi nel 2011. A febbraio di quest’anno gli incursori subacquei sono tornati in cronaca, perché il governo italiano aveva segnalato la partenza di un gruppo di Comsubin dalla base di Varignano (La Spezia) per una non specificata missione al largo della Libia: forse si trovano su qualche nave della Marina ed è probabile che siano un altro pezzo del piano preliminare italiano. Guido Ruotolo, sulla Stampa, è tornato sull’argomento due giorni fa, scrivendo in un articolo che c’è un piano italiano che sfrutterà Carabinieri e forze speciali (il GIS, Gruppo intervento speciale dell’Arma è una delle Sof italiane) per facilitare la formazione delle unità di sicurezza libiche, dopo la firma dell’accordo. «Il generale di corpo d’armata Paolo Serra, consigliere militare del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha chiesto quaranta giorni di tempo per creare una cornice di sicurezza nella capitale della Libia, Tripoli» spiega la Stampa. Le forze armate locali, saranno poi guidate contro l’Isis. Anche il Chicago Tribune parla attraverso fonti del governo italiano, di un piano analogo a quello descritto dal giornale di Torino.

L’Iraq. Unità speciali dell’esercito italiano sono impiegate anche in Iraq. Il loro impiego nel contesto iracheno, in questo momento, è più chiaro, perché hanno il compito di fornire addestramento alle milizie Peshmerga; si trovano a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno e mettono la propria esperienza al servizio dei combattenti locali, e a Baghdad, dove addestrano le forze irachene. Tuttavia, a giugno, sempre il Foglio, aveva pubblicato un articolo in cui riportava informazioni ottenute da una fonte anonima della Farnesina, che annunciava la partenza di una trentina di operatori del 9° Reggimento d’assalto “Col Moschin” (i paracadutisti incursori, una delle migliori unità d’élite del mondo) inviati in Iraq, esattamente nella base che corpi analoghi dell’esercito americano stavano costruendo a Taqqadum, area strategica tra Falluja e Ramadi. La base, in pieno Anbar, la provincia sunnita irachena dove l’Isis è più forte, sarebbe servita da piattaforma di lancio per operazioni mirate e per attività di raccolta informazioni nell’ottica dell’offensiva finale su Ramadi (che è partita, a stento, qualche giorno fa). I soldati si sarebbero dovuti muovere sotto il comando della Task Force 44, compiendo missioni “outside the wire”, cioè fuori dalle basi: la Task Force 44 avrebbe dovuto emulare la 45, composta da circa 200 elementi dei reparti speciali non conteggiati tra gli effettivi del contingente italianoschierato in Afghanistan (l’unità agisce sotto il comando del Col Moschin).

GLI STATI UNITI

La presenza delle forze speciali americane nei vari teatri sensibili è da sempre una costante al limite del mitologico: film, serie Tv, libri, videogames, dedicati. Washington, più nell’attuale ne ha inviato diverse unità in Iraq per fronteggiare l’avanzata del Califfato, ufficialmente con compiti di addestramento e consulenza delle forze di sicurezza locali (peshmerga e irachene) Il 31 ottobre il presidente Barack Obama ha annunciato l’invio di due team anche in Siria. Una dichiarazione pubblica che ha scoperto un piano pseudo-segreto, in cui le Sof americane avrebbero il compito di fare da advisor sul campo per le unità combattenti dei curdi siriani (YPG) e di alcune fazioni arabe che stanno avvicinandosi a Raqqa, la capitale siriana del Califfato (Foreign Policy dice che sono arrivate nel nord-est siriano in questi giorni). Circa un mese dopo, la Casa Bianca ha annunciato di inviare in Siria altri corpi scelti, tanto che sono iniziate a circolare insistentemente news sulla possibilità delle creazione di una base logistica per questi operatori a Rimelan (Rmlah), nel nord est della Siria. Da notare che la questione può apparire di piano secondario, ma invece dietro nasconde informazioni sull’enorme nodo geopolitico sulla Siria: cosa fare di Bashar al Assad? È abbastanza difficile che il regime siriano, e i suoi sponsor principali (Russia e Iran), permettano la creazione di una base militare americana, anche se improvvisata e temporanea, all’interno di un territorio di effettiva sovranità di Damasco senza che Assad sia d’accordo: ragion per cui c’è da credere che per la Casa Bianca la rimozione del rais non sembra più prioritaria, come ha scritto il New York Times spiegando il nuovo round di negoziati sulla crisi siriana di venerdì a New York.

La vicenda. Giovedì è girata un’altra notizia che riguarda le forze speciali americane, ma in Libia. Un commando (sembravano potessero essere anche contractors, ma una fonte della Difesa ha confermato che erano militari alla NBC) è atterrato il 14 dicembre in una base libica utilizzata dalla forze aree del governo di Tobruk prossima al confine tunisino (l’area è quella in cui opererebbero anche le Sof italiane), ma a causa del mancato coordinamento con le autorità locali, sarebbe stato rispedito subito indietro (pare da una delle milizie locali). In un approfondito pezzo uscito il 28 novembre sul New York Times in cui si parlava della diffusione del Califfato in Libia, i giornalisti americani parlavano di forze speciali americane presenti già sul suolo libico. La fonte che ha chiarito alcuni dettagli della vicenda del 14 dicembre alla NBC, ha indirettamente corroborato quanto scritto dal NYTimes, spiegando anche che queste unità stanno facendo «dentro e fuori» la Libia da diverso tempo, mantengono contatti, addestrano alcuni reparti dell’esercito regolare, cercano informazioni: l’intell in Libia potrebbe funzionare anche grazie al loro lavoro, visto che a metà novembre Washington ha comunicato di aver ucciso in un raid aereo (guidato dalle attività a terra) il capo dello Stato islamico in Libia Abu Nabil al Anbari, mandato direttamente dal Califfo per costruire la struttura libica dell’IS. A metà agosto, è stato anche segnalato lo sbarco di uomini del 524th Special Operations Squadron al confine tra Tunisia e Algeria, in aree sensibili alle rotte jihadiste: un analista specializzato in Iraq ha sostenuto su Twitter che quegli uomini sarebbero stati trasportati dallo stesso aereo che ha spostato il commando “beccato” il 14 dicembre. È noto da tempo che commandos americani girano in anonimato in diverse zone del Nord Africa, considerate molto importanti per la presenza dei diverse fazioni jihadiste combattenti (ampliare basi hotspot di Sof in vari territori, è uno dei nuovi piani counter-terrorism del Pentagono). Un esempio: quando gli attentatori del gruppo filo-qaedista al Mourabitoun attaccarono un hotel nella capitale del Mali, sul posto, a dirigere le operazioni per liberare gli ostaggi, erano presenti anche operatori delle forze speciali americane (a testimonianza che si dovevano trovare nei paraggi).

FRANCIA A REGNO UNITO

Il 17 dicembre il Times ha pubblicato un articolo in cui citava fonti del governo di Londra che dichiaravano la disponibilità inglese a fornire 1000 uomini dello Special Air Service (i Sas) da inviare in Libia al fianco di un contingente guidato dall’Italia. Le forze speciali si rivelano ancora una volta una cartina tornasole di attività più ampie di politica estera: il giornale inglese, infatti, sosteneva che l’invio dei militari si rendeva necessario visto che ormai i tempi erano maturi per l’intervento in Libia contro il Califfato. Il Times ha scritto che era pronto a partire un contingente di circa 6000 uomini: l’Italia ha più volte espresso la volontà di intestarsi le attività, anche militari, sulla Libia, visti i legami storico-culturali ed economici che legano i due Paesi. Nel pezzo in cui il NYTimes annunciava la presenza di Sof americane in Libia, si parlava anche di «commandos» inglesi nell’area: sia USA che UK hanno da difendere grossi impianti che gestiscono le estrazioni petrolifere nei campi poco a sud-est di Sirte, la roccaforte libica del Califfato.

La Francia anche è molto attiva nel Nord Africa: diverse unità scelte compongono il contingente dell’operazione “Barkane”, missione militare in chiave anti-terrorismo che interessa il Sahel e il Maghreb.

LA RUSSIA

Per la prima volta da due anni a questa parte, il presidente russo Vladimir Putin ha ammesso durante la conferenza stampa di fine anno tenutasi giovedì, che alcuni uomini inviati sul territorio ucraino avevano compiti «anche militari». È un giro di parole criptico, più o meno “politichese”, per ammettere non esplicitamente, l’impiego di corpi speciali durante il conflitto ucraino (questione nota a tutto il resto del mondo ma mai ufficializzata dal Cremlino). Uomini della Spetsnaz, l’unità scelta controllata dal servizio segreto militare russo (GRU), in realtà sono stati più volte segnalati sia tra i manifestanti di piazza Maidan, in missioni di disturbo, sia in Crimea e nel Donbass. Si pensa che i cosiddetti “omini verdi”, i militari senza insegne che hanno preso la penisola ucraina e poi le aree orientali, siano proprio membri delle forze speciali russe. Anche in Siria Mosca ha schierato (da molto tempo) uomini dell’élite militare, con ruoli a cavallo tra le spie, i sabotatori, e gli incursori. Ad inizio ottobre è stata segnalata sul suolo siriano la presenza della Zaslon, unità clandestina russa che opera fuori del contesto militare sotto diretto controllo del ministero degli Esteri e della presidenza.

L’IRAN

Se c’è un esempio del peso politico che i corpi speciali possono assumere, va ricercato a Teheran. L’unità scelta dei Pasdaran (i Guardiani della rivoluzione, cioè l’esercito comandato dal potere teocratico della Repubblica islamica), si chiama Quds Force; dove “Quds” sta per “Gerusalemme” e esterna un compito ultimo, distruggere Israele, nemico esistenziale iraniano. Il capo delle Quds è Qassem Soleimani, generale iraniano a cavallo del mito in patria, considerato molto più di un comandante. Soleimani è l’ideatore dell’intera strategia iraniana all’estero, che comprende la creazione, il finanziamento, l’addestramento, di milizie sciite in vari paesi come Siria, Iraq, Libano, Yemen, Afghanistan, al fine di mantenerne la presa sul potere; attività analoghe coinvolgono anche l’India e il Venezuela. Inoltre i suoi uomini sono artefici di operazioni clandestine, sabotaggi, omicidi mirati. Due giorni fa è stata diffusa la notizia che il generale Soleimani, spesso indicato come “l’eminenza grigia del Medio Oriente”, è volato a Mosca per incontrare Putin in persona. Il viaggio, in palese violazione di una sanzione Onu sullo spostamento del generale iraniano, è stato commentato dal presidente russo che ha definito Soleimani «il mio grande amico». Nelle ultime settimane si è assistito ad un decremento dell’impegno iraniano in Siria (sfiduciato sulle sorti del Paese, dalle ingenti perdite e dalla morte di numerosi ufficiali, tra cui il numero due di Soleimani, Hossein Hamadi), e forse Putin ha voluto un incontro diretto con il capo della strategia militare di Teheran, per rinvigorire l’alleato. Soleimani si occupa anche della gestione di un’altro braccio speciale iraniano: l’ala armata del partito libanese Hezbollah (a proposito: il Times of Israel scrive che circa un terzo dei combattenti Hez sono rimasti uccisi o feriti per difendere Assad). I libanesi si muovono secondo gli ordini del generalissimo, anche se non sono forze effettive dell’Iran: un chiaro esempio di come i corpi speciali possano indirizzare questioni geopolitiche di ordine superiore.


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