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La Cina si insinua in Ue con la collaborazione universitaria. Ecco come

Enti universitari cinesi molto vicini agli apparati della difesa parteciperebbero a progetti di ricerca finanziati dall’Unione europea, traendone un certo vantaggio. E se da una parte Bruxelles vuole evitarlo, dall’altra c’è un certo margine di tolleranza

La Repubblica Popolare Cinese entra nella ricerca della “rivale” Unione europea. E lo fa attraverso la dimensione più scontata, cioè quella universitaria. Facendo sorgere dubbi sulle capacità che l’Europa ha nel tutelarsi da intromissioni più o meno volute.

A suonare il campanello d’allarme è Politico, che rivela come negli ultimi dieci anni l’Ue abbia finanziato almeno quattordici progetti (di cui otto ancora in corso), dalla decarbonizzazione alla modellazione del clima, dalla tecnologia di riscaldamento e raffreddamento alle antenne e alla tecnologia di propulsione dei motori, per un valore totale di circa ventisei milioni di euro. Progetti a cui hanno collaborato anche università cinesi considerate ad alto rischio dagli esperti per via dei loro legami con l’apparato militare di Pechino, legami così forte da portare alla nascita del nomignolo “Sette Figli della Difesa Nazionale” per gli istituti in questione, che secondo quanto riportato dalla piattaforma di data intelligence focalizzata sulla Cina Datenna, sono gestite dal ministero dell’Industria e della Tecnologia dell’Informazione di Pechino e “svolgono un ruolo importante nell’industria della difesa cinese”.  L’Australian Strategic Policy Institute ha classificato tutti gli istituti unversitari cinesi in questione come partner a rischio “molto elevato” all’interno del China Defence Universities Tracker.

Risalgono appena al maggio scorso le linee guida per i Paesi e le università adottate dal blocco europeo al fine di proteggere la dimensione della ricerca dalle interferenze straniere (e specialmente da quella cinese), ed evitare così di fare in modo che Pechino potesse mettere le mani sulla proprietà intellettuale, oltre che di vedere il proprio know-how utilizzato a proprio detrimento. Ma sul piano pratico la situazione sembra alquanto divergente da quello teorico. Due mesi prima, cinque università europee avevano avviato un progetto sulla decarbonizzazione finanziato dall’Unione (che ha stanziato una cifra di quasi 2 milioni di euro), dentro al quale era incluso come partner l’Istituto di Tecnologia di Pechino, ovvero uno dei “Sette Figli della Difesa Nazionale”. Persino Horizon Europe, il programma di ricerca e sviluppo più importante dell’Unione, finanzia un progetto sulla tecnologia di trasferimento del calore che ha come partner l’Università di Beihang, anch’essa parte dei “Sette”. E molti altri progetti che hanno coinvolto questi istituti sono stati realizzati nell’ambito di Horizon 2020, il predecessore di Horizon Europe.

Nell’ambito dei programmi di ricerca europei partecipanti cinesi sono considerati “partner associati”, ovvero non ricevono finanziamenti dall’Ue, ma sono coinvolti in compiti di ricerca specifici. Sfruttando questa posizione possono però mettere le mani sopra preziose informazioni.

D’altro canto però, non tutti si sono schierati per una totale eliminazione dei rapporti di collaborazione con la Cina. Come l’Università di Groningen, responsabile del progetto sulla decarbonizzazione, che ha dichiarato come le richieste di collaborazione con i “Sette Figli” siano state esaminate per verificare se vi fosse il rischio di un uso improprio dei risultati, arrivando a decretare che “l’argomento della ricerca è tale che non abbiamo riscontrato il rischio di un uso improprio per scopi militari o altri obiettivi indesiderati”. Anche l’Università di Saragozza ha dichiarato che la cooperazione di ricerca con la Cina sul tema della decarbonizzazione è “auspicabile, poiché l’impronta di Co2 cinese avrà un effetto importante sul cambiamento climatico globale”.

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