Dal G7 Difesa ai Brics, fino al ruolo dell’Europa nei conflitti, conversazione con Elisabetta Trenta, già ministro della Difesa, analista e docente specializzata in sicurezza e intelligence, impegnata in passato anche in organizzazioni umanitarie
Nei giorni scorsi si è tenuto a Napoli il G7 della Difesa, un inedito format promosso nel quadro della presidenza italiana dei Sette “grandi”. La conferenza stampa finale del ministro della Difesa, Guido Crosetto, anche commentando la dichiarazione congiunta della ministeriale, ha ribadito le posizioni italiane e occidentali sui maggiori temi e sugli scacchieri di crisi più rilevanti, dal sostegno all’Ucraina alla drammatica crisi mediorientale. E qui con sottolineature nette, soprattutto sulle azioni militari e l’emergenza umanitaria a Gaza, in direzione del “cessate il fuoco immediato e il rilascio degli ostaggi” sulla base della proposta Biden con la risoluzione 2735 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ed esprimendo “preoccupazione” per i ripetuti e gravissimi attacchi delle truppe di Tel Aviv alla missione Unifil con le postazioni dei Caschi blu italiani.
Con Elisabetta Trenta, già ministro della Difesa, analista e docente specializzata in sicurezza e intelligence, impegnata in passato anche in organizzazioni umanitarie, Formiche.net ha approfondito alcuni aspetti delle aree di criticità nel mondo.
Elisabetta Trenta, a parte la dura posizione riaffermata dall’Italia sugli attacchi Idf “inaccettabili” ai Caschi blu e per fermare le azioni militari a Gaza, innanzitutto una sua valutazione su questo G7 Difesa. È un nuovo format utile per mostrare l’unità di vedute dell’Occidente o una iniziativa che diverrà routine, da aggiungere ad altri incontri al vertice e ministeriali?
Credo che sia stata un’iniziativa utile. Apprezzo lo sforzo che è stato fatto, anche perché i tempi che viviamo ci dimostrano che la questione Difesa è molto importante, bisogna parlarne e condividere il più possibile. Penso che sia un problema, invece, che nel G7 continuino a starci tre Paesi europei e che non ci sia l’Europa in quanto tale. Questo ci rende sempre molto deboli.
L’“Europa” nel G7 avrebbe un peso molto più grande rispetto a tre Paesi distinti che, invece, dal punto di vista della politica estera e quindi anche della politica della difesa, possono avere – e hanno – degli interessi spesso molto diversi.
Questa è la prima riflessione che farei. Ma sicuramente ben venga un consesso del genere, perché aiuta a parlare di temi sui quali ci esprimiamo solo in altri consessi.
A questo proposito, al G7 Difesa è stato invitato anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, oramai uscente, Josep Borrell, come anche il neo segretario generale della Nato, Mark Rutte. Ma guardando al Vecchio continente secondo lei la nuova designata nella Commissione Ue, l’ex premier estone Kaja Kallas, non sposta troppo a Est la visione dell’Europa, come anche dell’Alleanza Atlantica, su questi temi? E quale attenzione al fronte Sud ed al Mediterraneo allargato?
Direi che non avevamo affatto bisogno di spostarci ancora di più a Est, mentre invece il Sud ci chiama e ci obbligherebbe a muoverci di conseguenza e in modo più appropriato. Ma ancora una volta, secondo me, i vari Paesi europei, nell’ambito di una visione Nato che li considera tutti diversi l’uno dall’altro – e penso ai Paesi mediterranei, in particolare – non hanno la forza di portare avanti le loro istanze con la stessa forza e determinazione con cui si muovono gli stati che si trovano di fronte alla sfida che viene da Oriente.
Questo è qualcosa che deve essere superato in ambito Nato perché poi, in realtà, oggi gli squilibri che vengono dal Sud del mondo sono pericolosi per tutti. Non dimentichiamoci che nel tratto di mare a Sud delle sponde italiane passa di tutto: pensiamo a tutte le sfide dell’energia o alle sfide della tecnologia, come anche i cavi sottomarini. Insomma, è un’area della quale non ci dobbiamo dimenticare e in cui, in questo momento, non possiamo lasciare a Israele la briga di decidere come sarà configurabile il prossimo Medio Oriente.
Sulla vicenda delle azioni militari contro Unifil si è risposto con la giusta durezza da parte italiana, richiamando in primis al rispetto della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza Onu e garantendo i peacekeepers?
Condivido la posizione espressa dal ministro Crosetto sin dal primo momento a riguardo dell’attacco di Tel Aviv a Unifil, credo però che richiederebbe un ruolo più rilevante da parte dell’Italia, da sola o insieme agli altri paesi che sono parte della missione. Ad esempio, Italia, Francia e Spagna insieme potrebbero avanzare delle proposte di garanzia vera nei confronti di Israele, la cui sicurezza deve essere assicurata su quel confine, e prendere così una posizione diversa, provando a avere un ruolo pacificatore, cosa che non facciamo mai e continuiamo a non fare.
Io credo che sia possibile, in questo momento, assumere un’iniziativa, e determinare una posizione forte non all’interno di Unifil, che in questo momento non ce la fa ad agire, ma al di fuori di essa, come singoli Paesi. Su questo bisognerebbe lavorare.
In Medio Oriente oramai vi è una situazione incandescente e in rapida escalation, dove Washington non riesce a persuadere il primo ministro Benjamin Netanyahu a una maggiore moderazione, con tutti i molteplici fronti bellici in cui ha impegnato Israele. Ma sostanzialmente tutti attendono il risultato delle presidenziali statunitensi, il dopo 5 novembre?
Molto probabilmente Netanyahu sta scommettendo tutto sulla vittoria di Donald Trump. È chiaro che quella presidenza non avrebbe grande influenza pacificatrice su questo conflitto. Il premier israeliano sta comunque approfittando del momento in cui gli Stati Uniti non possono andare oltre i proclami che fanno i candidati, perché in un modo o nell’altro perderebbero entrambi dei sostenitori in questa campagna elettorale. Questi sono tempi, però, molto pericolosi: il Libano è in una condizione al limite dell’assurdo e quel che sta succedendo è inconcepibile. L’attacco a Unifil, così come viene condotto anche con moltissima propaganda, non è ammissibile. E la cosa che io vedo più inconcepibile sono soltanto i proclami dei Paesi europei interessati che non si trasformano, come dicevo, in nessuna proposta. Avanzare delle proposte o semplici prospettive certamente può significare anche un insuccesso, ma se in questo momento non ci si muove affatto, non si arriverà a nulla.
È il suo un realismo carico di pessimismo per una de-escalation e per il Libano?
Vedo un’analogia, quella che durante il terribile periodo del Covid-19 veniva chiamata “vigile attesa”. Quella “vigile attesa” ha condotto alla scomparsa, alla morte di molti pazienti. E adesso registro che l’Italia e soprattutto l’Europa Mediterranea sono tutti in attesa dinanzi a quello che sta succedendo in Libano. Un atteggiamento statico. E altri Paesi, che già da tanto tempo esercitano la loro influenza su quelle aree, forse potrebbero essere anche utili. Sarebbe utile, inoltre, riuscire a parlare con questi attori proprio per riportare una garanzia di sicurezza in questa parte del Medio Oriente. Ripeto: sicurezza verso e per Israele, sicurezza per il Libano, sicurezza per tutti i Paesi vicini.
È poi da ricordare che Hezbollah è costituita da tre parti, di cui una parte sola è la milizia. Ma con la parte politica, finché essa è ritenuta tale e fino a che rappresenta una parte del Libano (il “Partito di Dio” è rappresentato nel Parlamento di Beirut e ripetutamente nell’esecutivo, ndr), necessariamente sarà da trovare un modo per parlarci. Però neanche su questo ci si muove. Non c’è nessun tentativo o almeno, ovviamente, finora non conosciuto.
Sono ripresi i colloqui di Doha tra Israele e Hamas con i mediatori per una sempre più fantomatica tregua a Gaza. Ma l’eliminazione di Yahya Sinwar, oltre che dei maggiori capi dell’organizzazione islamista armata palestinese, può facilitare il dialogo oppure si è in una situazione di ulteriore e totale imprevedibilità?
Partendo dall’analisi di quello che succede nei movimenti terroristici, di regola, quando vengono uccisi i capi, nascono sempre nuovi capi. E normalmente, questi successori non sono così capaci, così affermati e non hanno una leadership forte e riconosciuta come quella dei loro predecessori. Quindi, man mano, le leadership degradano verso il basso. Il problema è che questo non è sempre un vantaggio, perché può rappresentare anche una maggiore difficoltà per giungere ad una soluzione di un conflitto o in una mediazione. Oppure, ad esempio, può significare una maggiore imprevedibilità nei comportamenti. È un momento rischioso, che potrebbe anche condurre a un peggioramento sia pure temporaneo, come quello di una polverizzazione dell’atto terroristico, per la mancanza di una chiara e forte linea di comando.
Per Tel Aviv resta l’obiettivo Iran, anche colpendo i suoi proxy sempre attivi contro Israele. La contro risposta israeliana con gli attacchi, preannunciati a Teheran e alla comunità internazionale attraverso Paesi terzi, ha provocato relativamente pochi danni. Una relativa moderazione in questo caso, mentre la comunità internazionale assiste a un quadro sempre più disarticolato?
Mi sembra di vivere in un mondo che sta a guardare quel che accade. Senza iniziativa e senza una reale azione politica e diplomatica degli attori che potrebbero muoversi. E rilevo assai poca concretezza da parte dei paesi del G7 rispetto a tutto quel che succede nell’area mediorientale. Mi sembra veramente molto poco.
Come valuta la riunione dei 36 Paesi Brics a Kazan, con la partecipazione anche di amici stretti dell’Occidente, come Egitto e Arabia Saudita, o membri della Nato come l’eccentrica Turchia, e la presenza del segretario generale dell’Onu, talora criticata a Ovest, ma messa in ombra dai media di Vladimir Putin per alcune sue dichiarazioni non gradite sul conflitto con Kyiv?
Non è detto che i Brics non siano l’unico territorio dove è possibile un dialogo non “congelato” in questi blocchi che si stanno ricreando. E questo perché se è vero che da un lato – almeno per alcuni dei soggetti che ne fanno parte -, i paesi Brics sono un anti – blocco occidentale, un “anti – G7”, bisogna anche dire che i suoi componenti sono molto eterogenei.
Alcuni Stati sono in conflitto tra loro, poi vi è un fortissimo ruolo della Cina e questo non è molto gradito alla Russia. Ne fan parte, poi, delle democrazie o altri paesi non particolarmente democratici che però vogliono continuare a parlare con il blocco occidentale. O ancora, ci sono altri paesi che, in questo momento, essendo proprio quasi in guerra con il G7, tentano di identificarsi più in quel consesso.
Peraltro, Brics è soltanto, per ora, un consesso di tipo economico, invece di rappresentare un elemento strategico globale che possa avere ambizione di crescere.
Io credo che queste occasioni di confronto, almeno fino a che rimangono soltanto dei momenti di unione e non perseguono un obiettivo strategico chiaro che li metta tutti insieme, insomma questi paesi Brics debbano essere utilizzati come strumenti di un dialogo. Un dialogo che è diventato molto difficile su diversi altri fronti.
La Turchia di Recep Tayyip Erdogan è un caso a sé – pensiamo ad alcune forniture militari russe non compatibili con l’Alleanza atlantica o a certi standard retorici – con la sua ricerca di un ruolo da protagonista non solo regionale?
Dobbiamo avere sempre presente che nell’ambito dei soggetti che sono nei Brics, ci sono alcuni che non vogliono avere un solo Paese da cui dipendere e vogliono continuare a dialogare con tutto il mondo. Questo è positivo. E ancora una volta qui si conferma come la Turchia intenda portare avanti sempre i propri interessi.
La Turchia è un Paese Nato che vuole entrare nei Brics per giocare un ruolo anche in quel consesso. E Ankara ancora una volta si pone e, probabilmente, si vorrà porre come un paese di dialogo, specialmente in alcune crisi.
Il vertice di Kazan si è tenuto negli stessi giorni del G7 Difesa di Napoli. Una curiosa coincidenza per alcuni osservatori?
Certamente è vero che, in questi giorni, proprio la coincidenza del nostro G7 Difesa con lo svolgersi dell’incontro dei Brics ha portato a far vedere i due eventi come in contrasto. Però, se volessimo avere una visione non troppo legata soltanto al puro contingente, ma con uno sguardo verso il futuro, potremmo invece cercare di vedere quali sono le condizioni per far sì che una crescita – direi in buona salute – di questo nuovo consesso possa diventare un elemento di dialogo. Un elemento di dialogo utile, sottolinerei ancora, per riaprire questi blocchi che si stanno creando. Non la vedrei, quindi, soltanto in un modo negativo.
Per concludere, uno sguardo al conflitto russo-ucraino. C’è sempre l’incognita del prosieguo-stasi della guerra, legata all’esito delle elezioni oltreoceano e all’incognita della nuova amministrazione Usa. Ma che scenario si prospetta, secondo lei?
L’elemento principale è l’attesa di quel che succederà a Washington. Per molti c’è la speranza che l’ex presidente Trump possa essere un risolutore di quel conflitto. Io dico che Trump potrebbe risolvere un problema e peggiorarne degli altri. Insomma, non vedrei la risoluzione soltanto nei presidenti negli Stati Uniti. Io vedo la soluzione anche in Europa, ma il Vecchio continente continua a non esserci se non con delle dichiarazioni. L’Europa deve invece ricominciare a avere il suo ruolo e svolgere la funzione per cui è nata. Altrimenti non è più l’Europa nella quale siamo entrati. Io continuo a dire che la pace giusta non viene necessariamente raggiunta con una vittoria militare, ma che la pace può essere raggiunta nel tempo.
Ci possono volere anche un tot di anni per raggiungere quella che può essere percepita come una pace giusta, ma sicuramente non è accettabile continuare a far morire intere generazioni di giovani.
Egualmente grave è il permettere l’estensione del conflitto non soltanto a livello di Ucraina e Russia. Pensiamo a quel che sta accadendo negli ultimi giorni, con soldati dalla Corea del Nord chiamati a combattere.
Un allargamento delle ostilità ad altri attori e fuori dall’area europea molto preoccupante. Quale percorso per le trattative?
Certamente si tratta di un coinvolgimento di altri soggetti non accettabile. Considerando che Putin, se intende trovare in chiave anti occidentale fuori dalla Russia nuove forze da impiegare nel conflitto, in primis contro gli Stati Uniti e gli altri alleati pro Kyiv, troverà di sicuro tanti altri combattenti.
Ma non è un vantaggio per nessuno mantenere, magari per decenni, un conflitto latente e semi congelato al centro dell’Europa. È necessario ricominciare a trattare con convinzione. Immagino che trattative sotterranee vi siano e vi saranno sempre state, ma ora bisognerebbe sedersi a un tavolo ben differentemente.
Ripeto: è necessario ricominciare le trattative che poi dovranno condurre a una pace giusta tra Russia e Ucraina. Non è detto che ci dobbiamo arrivare in un giorno, ma con tutto il tempo necessario. E qui, per me, dovrebbe avere una voce e un ruolo importante dell’Europa. Un ruolo che oggi l’Ue non svolge.