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Diplomazia, dazi, politica. Trump vuol pressare la Cina fino a sfiancarla

Il giornalista di Axios Jonathan Swan, uno dei migliori e più informati sulle dinamiche dell’amministrazione Trump, ha nuove informazioni dall’interno sul confronto tra Stati Uniti e Cina. Gli insider che hanno parlato con Swan – solitamente fonti di alto livello ad elevata affidabilità, che per ruolo e delicatezza dei temi scelgono l’anonimato – spiegano che la nuova regola di ingaggio contro Pechino è totale – e il concetto l’ha spiegato il vice presidente americano Mike Pence in un discorso i primi di ottobre. Donald Trump, dicono tre fonti con conoscenze dirette su conversazioni riservate e pensiero personale del presidente, vuole vederli “soffrire ancora”, non ha intenzione di allentare la presa  – che in questo momento sta sfociando nell’innalzamento delle tariffe commerciali – e vorrebbe con questa pressione portare la leadership cinese a mollare, e a quel punto chiuderci accordi più convenienti per l’America.

Lo guerra dei dazi è “l’inizio dell’inizio”, dice una delle fonti per spiegare che il piano commerciale è soltanto uno dei piani – e più facilmente accessibile in questo momento – del confronto globale tra le due super-potenze, prima e seconda economie del mondo. Gli americani non hanno intenzione di portare la questione sul tavolo dell’incontro previsto tra Trump e il suo omologo cinese Xi Jinping a latere del prossimo summit del G20: quello è considerato un faccia a faccia quasi personale tra capi di stato, che servirà a ricreare un minimo di reciprocità in questa delicata fase dei rapporti, in cui oltre ai dazi, gli americani attaccano il Dragone su tanti piani, dalle pretese di Pechino sul Mar Cinese alle denunce per le politiche aggressive e settarie nello Xinjiang; intensificano le attività di controspionaggio, anche col supporto di partner internazionaliappoggiano Taiwan; muovono anche con gli alleati dinamiche per mettersi di traverso rispetto agli interessi cinesi.

In generale, gli Stati Uniti non si lasciano sfuggire nemmeno un campo di confronto. Per esempio, mercoledì scorso, senza che la notizia passasse troppo sotto i riflettori, l’amministrazione Trump ha annunciato che gli Usa lasceranno la Universal Postal Union, un accordo del 1874 che aiuta a standardizzare le regole postali tra la comunità internazionale. L’Upu – già attaccato tempo fa sul Financial Times da Peter Navarro, l’agguerrito consigliere anti-Cina di Trump sul Commercio – ora è sotto la gestione delle Nazioni Unite, ed è il sistema condiviso da 192 paesi con cui si stabiliscono i tassi che i servizi postali nazionali pagano per le spedizioni internazionali, con una concezione semplice: aiutare i paesi più piccoli e più deboli a crescere. Il trattato è stato perfezionato nel 2016, dato che la Cina, ormai diventata una potenza, non dovrebbe godere di alcuni privilegi previsti, tuttavia permette ancora ai produttori cinesi di spedire articoli negli Stati Uniti a tassi significativamente bassi (a volte pari a zero), e per questo Trump lo trova sconveniente – un altro tassello in quelle che la Casa Bianca considera scorrettezze di mercato con cui la Cina spinge la sua economia. Ritirandosi, Washington avrebbe mani più libere per imporre anche sul campo postale le proprie volontà contro Pechino, senza i paletti imposti da questo (come altri) accordo multilaterale.

Secondo il presidente americano aumentare la pressione prima o poi porterà i cinesi al tavolo, e lì potrà chiudere un accordo conveniente per gli Stati Uniti: dall’accordo la Cina dovrebbe uscire ridimensionata, e rallentare la sua scalata verso la vetta del mondo – sia in termini economici, sia in termini di presenza globale con cui la Cina sta diffondendo la sua influenza, due aspetti detestati dagli americani. Al momento, però, dopo diversi round di contatti nei mesi passati, non c’è nient’altro che relazioni di routine tra funzionari di medio-livello e altri talks non sono in programma. Il team di funzionari di Tesoro e Commercio che ha finora guidato le negoziazioni, sostiene che è inutile avviare accordi per aumentare gli acquisti cinesi, se poi ci sono sul tavolo questioni fondamentali come i furti di proprietà intellettuale e lo spionaggio industriali, per esempio.

Nell’ultimo numero in edicola, l’Economist ha dedicato (di nuovo) la sua storia di copertina al confronto tra Stati Uniti e Cina, che è considerata da studiosi e leader politici l’enorme questione globale dei nostri giorni e del futuro. Secondo la più importante delle riviste al mondo, l’America ha cambiato il suo modo di vedere Pechino (quesitone già affrontata a maggio), sia tra i conservatori che tra i liberali, e il nuovo consenso che si sta creando ruota attorno a un punto cruciale: la Cina sta lavorando per minare gli interessi americani, contrarne la dimensione degli Stati Uniti e sfruttarne spazi per crescere ed espandersi. C’è una convergenza ampia su questo, e il cui ritmo è stato velocizzato dall’entrata in scena di Trump: e ha sfumature diverse perché coinvolge i teorici del libero mercato come i falchi dell’amministrazione, i boss della sicurezza nazionale come i leader dei sindacati o gli attivisti dei diritti civili.

A questa posizione americana corrisponde una praticamente simmetrica cinese: a Pechino, gli opinion maker (dagli organi politici ai media governativi) stanno diffondendo l’idea che gli Stati Uniti hanno fissato il contrasto dell’ascesa della Cina come obiettivo della propria politica, interna ed esterna. Secondo l’analisi di Bill Bishop, che cura una della più importanti newsletter sulla Cina, l’Impero Celeste è già sufficientemente organizzato per sopportare questa situazione, anzi era atteso l’inizio del confronto agguerrito americano, però i cinesi non si aspettavano che sarebbe arrivato così rapidamente (e questo è Made in Trump) – per Bishop lo proiettavano nell’arco dei prossimi 5-10 anni, e per questo Pechino starebbe cercando di muoversi per rallentare la spinta offensiva di Trump e rimandare la pratica.

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