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Microchip, ecco come il Pentagono ricerca l’autonomia strategica

La guerra dei microchip continua ad essere uno dei leitmotiv dell’acuirsi delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Le ultime misure restrittive annunciate dal Dipartimento del Commercio hanno inflitto un ulteriore duro colpo a Huawei.

Il nuovo pacchetto di restrizioni di fatto vieta a qualsiasi azienda che utilizzi equipaggiamento americano hi-tech per la fabbricazione di semiconduttori di fare affari con il colosso di Shenzen. Una mossa mirata ad erigere una barriera commerciale, ancor più stringente rispetto ai provvedimenti di maggio scorso, tra Pechino e la principale produttrice di microchip al mondo, Taiwan Semiconductor Manufatcoring Company (Tsmc), da poco entrata nell’olimpo delle aziende mondiali con il sorpasso storico su Intel, come raccontato su Formiche.net.

L’azienda di Taipei infatti utilizza strumentazioni di fabbricazione americana – in particolare di Applied Materials, leader nel settore – con le quali ha raggiunto il 54,1% delle quote di mercato mondiali. Huawei è stata uno dei suoi partner più importanti nel 2019, con oltre il 12% delle vendite. Tuttavia, l’azienda cinese è ormai nell’occhio del ciclone Trump, con i suoi asset commerciali (telefoni, rete 5G) sotto tiro e in balia delle mosse dell’amministrazione americana per escluderla dal mercato dei microchip, senza i quali i suoi piani di sviluppo nell’economia digitale sono destinati a patire una brusca frenata. Ecco perché, in assenza di un’industria nazionale dei semiconduttori all’avanguardia, Huawei ha persino iniziato un’opera di reclutamento degli ex manager ed ingegneri della compagnia taiwanese.

Non tutti sono concordi nel recitarne il de profoundis: secondo alcuni osservatori del Financial Times, il decoupling forzoso voluto da Washington lungo la supply chain dei microchip indurrà Pechino a ricercare la propria “sovranità elettronica” in soccorso alla sua punta di diamante. Avendo iniziato ad accumulare scorte per i prossimi mesi (il 21 settembre Tsmc non potrà più vendergli i suoi microchip), secondo il South China Morning Post Huawei, spinta dall’aggressività americana, spingerà ancor di più per garantire alla Cina “autonomia” nel settore e il suo indebolimento commerciale finirà per colpire gli interessi dei suoi partner americani.

A prescindere dal destino di Huawei, secondo uno studio del Wall Street Journal il mercato globale dei semiconduttori rimane comunque con una forte impronta americana, dal momento che dieci delle quattordici maggiori compagnie sono statunitensi. Inoltre, in questa lista – Nvidia, Qualcomm, Broadcom, Texas Instruments per citarne solo alcune – figurano aziende cosiddette “fabless”, ovvero il cui core business è ormai legato a stadi di progettazione e management con più human capital, come R&D e software design dei microchip. È in questo settore che gli Usa hanno costruito la loro supremazia, delegando la produzione di hardware principalmente a Tsmc e, in piccola parte, a Samsung. Avendo operato questa scelta, ormai l’intero settore dipende dall’hardware prodotto sull’isola taiwanese. Non senza un margine di rischio.

Se Taiwan facesse scattare la “trappola di Tucidide” tra Usa e Cina, o un evento naturale catastrofico causasse la completa interruzione della produzione sull’isola dei microchip, cosa accadrebbe agli equilibri – già precari – dell’ecosistema digitale su cui le superpotenze contano per l’egemonia tecnologica? In questo scenario, accanto all’offensiva commerciale si delinea una strategia complementare, più che alternativa, per affrontare la realtà di quello che è stato definito come il “single point failure in the digital economy”.

LA RISPOSTA: UN’INDUSTRIA ELETTRONICA NAZIONALE

Che la pandemia avesse rilanciato l’estrema dipendenza degli Usa dalla Cina per beni primari essenziali è ormai una questione assodata e destinata a scandire il dibattito durante le elezioni presidenziali. Molto meno scontato il monito del giugno scorso della Semiconductor Industry Association (Sia) di rilanciare una vera e propria politica industriale per i microchip, dopo essere stata tra le promotrici della globalizzazione del settore.

Accolto da alcuni membri del Congresso già negli scorsi mesi, ad esso sono seguite alcune proposte legislative come il Chips America Act, l’American Foundries Act 2020 e l’emendamento al National Defense Authorization Act (Ndaa), con i quali i policymakers si sono prefissati di aumentare la spesa federale in R&D e preparare un terreno fertile per un reshoring della produzione in funzione anti-cinese. Alla base di queste iniziative giace la convinzione che una nuova partnership pubblico-privato tra i campioni americani e le agenzie federali possa nuovamente fare le fortune degli Usa e così respingere la sfida lanciata da China Inc, specialmente in un settore così cruciale per l’economia moderna.

Vi è tuttavia un progetto di più lungo corso che godrà, in questo contesto favorevole, di sempre più attenzione. Si tratta dell’Electronic Resurgence Initiative (Eri), lanciata nel 2017 dalla Defense Advanced Research Project Agency, la celebre divisione del Dipartimento della Difesa con una lunga storia di innovazione e di tecnologie dual-use. Si tratta di un’iniziativa volta a ricostruire l’industria dei microchip che, come menzionato precedentemente, ha subito a partire dalla fine degli anni Ottanta la scomposizione del modello di business tradizionale – l’Integrated Device Manufacturing Model (o Idm). In breve, le aziende si sono progressivamente concentrate sul design e sugli stadi più remunerativi, lasciando a poche “foundries” il compito di produrre i microchip oltreoceano (tra cui Tsmc).

“L’industria microelettronica americana è arrivata ad un punto di flessione” ha commentato Ellen Lord, Sottosegretario alla Difesa per il programma di acquisizioni del Dipartimento, al summit virtuale dell’Eri tenutosi recentemente. Attraverso il progetto il Pentagono sta espandendo la sua base tecnologica implementando quello che Lord chiama “un processo step-by-step per ricostituire una supply chain microelettronica”, focalizzandosi su più segmenti del settore, dai circuiti integrati (ICs) ai dispositivi cloud. “Anche se il DoD non guida il mercato elettronico”, che costituisce solo l’1% della domanda, le forze armate “possono attirare la ricerca e sviluppo” ha aggiunto.

Si tratta in sostanza di riproporre in parte quel modello – il complesso militare-industriale – che aveva segnato (e vinto) la Guerra fredda. Poco importa se saranno imprese private particolarmente virtuose sul piano dell’innovazione tecnologica a recepire sostanziosi finanziamenti del Pentagono: si tratta di preparare il terreno per l’innovazione commerciale. È già avvenuto in settori upstream come nel caso delle terre rare, di recente.

Non solo. A legittimare questo progetto c’è anche la crescente preoccupazione per quello che Lord definisce il “pedigree della microelettronica [americana]”. Ricostruire un’industria dei semiconduttori in un perimetro sicuro e definita in tutti i settori da standard americani è un importante fattore per la sicurezza nazionale, soprattutto alla luce delle crescenti tensioni con la Cina. “Il nostro interesse nel proteggere sia la confidenzialità sia l’integrità di una nostra supply chain è allineato con gli interessi commerciali, e continueremo a lavorare tra il governo e l’industria per sviluppare e implementare una strategia di assicurazione basata sulla “fiducia zero”, ha rimarcato Nicole Petta, direttore dell’ufficio per la microelettronica del Pentagono. In sostanza, ogni componente microelettronica dovrà essere convalidata e certificata per il suo impiego.

“Le guerre moderne sono combattute con i microchip”, aveva dichiarato un senatore americano lo scorso maggio. “Strangolare” la supply chain di Huawei e ricostruirne una a stelle e strisce potrebbero essere due facce della stessa strategia.


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