Il processo di americanizzazione della politica italiana, secondo il professore di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma Mattia Diletti: “È iniziato trent’anni fa con le tecniche e gli strumenti e ha finito inevitabilmente con l’estendersi alle policy”. Fenomeno confermato anche dall’iniziativa “Ti candido”: l’associazione prende spunto dal movimento Justice Democrats che nel 2018 debuttò contribuendo alla vittoria e all’elezione al Congresso di Alexandria Ocasio-Cortez
L’Italia e l’America, politicamente parlando. O, meglio, il processo di americanizzazione della politica italiana. “Ormai è in corso da trent’anni”, ha commentato il professore di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma Mattia Diletti, considerato tra i principali esperti di think tank nel nostro Paese. Un fenomeno che oggi si articola in due binari principali: le tecniche e gli strumenti da un lato e le questioni di policy dall’altro.
“Ma si deve sempre considerare che si tratta di due mondi diversi: non basta agitare lo scintillio americano per funzionare nel sistema politico italiano, altrimenti si rischia di fare la fine di Alberto Sordi nel film Un americano a Roma“, ha osservato ancora Diletti, che un esperimento diretto di americanizzazione lo sta portando avanti dal 2019. E’ il caso dell’associazione Ti candido, di cui è tra i fondatori, che sul modello dei PAC negli Usa mira a selezionare dal basso e poi a finanziare attraverso campagne di crowfunding i candidati in lizza per le elezioni comunali e regionali: “Nelle tornate elettorali del 2019 e del 2020 abbiamo contribuito a eleggere undici consiglieri comunali e regionali e un sindaco. Ma per le prossime amministrative la sfida è di essere presenti nelle cinque principali città al voto, ossia a Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli”.
Professor Diletti, l’americanizzazione della politica italiana è un fenomeno solo degli ultimi trent’anni?
Ai tempi della vecchia repubblica dei partiti l’America non la guardavamo neppure. Nel senso che c’era la certezza della vicinanza agli Stati Uniti perché erano il Paese fratello e l’alleato principe ma in politica non ci ispiravamo a quel modello perché troppo diverso da noi. E anche per via di una certa diffidenza nei confronti degli Usa da parte della cultura cattolica.
E poi cos’è successo?
All’inizio degli anni novanta, e con Tangentopoli, tutto è cambiato. Allo sfaldarsi del sistema dei partiti, le forze politiche sono diventate sempre più leggere e meno ideologiche, è aumentato il grado di personalizzazione ed è emerso il primato della comunicazione, da Silvio Berlusconi in poi. In questo contesto è inevitabile che gli Stati Uniti siano diventati fonte di ispirazione per l’Italia.
Da che punto di vista?
Innanzitutto per quanto riguarda le tecniche. Penso alla comunicazione, all’idea della politica come prodotto e alle attività di marketing che la accompagnano. E anche al sistema mediale che ha cominciato ad assomigliarsi di più. Per non parlare dell’importanza della leadership che in quella fase è arrivata anche da noi. I partiti iniziarono a perdere peso e, di conseguenza, cominciò a crescere in misura rilevante l’importanza delle singole personalità politiche. Dei leader, appunto.
E sotto il profilo dei temi e delle politiche?
Anche ovviamente. Com’era logico, dagli strumenti l’influenza americana ha finito con l’estendersi anche alle policy. Un processo di americanizzazione iniziato a sinistra, dove la ristrutturazione ideologica è stata più veloce, con l’Ulivo mondiale, la cosiddetta Terza via, il mito di Bill Clinton e Tony Blair.
A destra invece?
E’ accaduto lo stesso, anche se un po’ più tardi e con maggiore gradualità. Esempi in tal senso però non mancano: tra gli altri, mi vengono in mente la fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello o la rivista Ideazione di Alleanza Nazionale, che guardava apertamente all’America. Alcuni temi così sono diventati comuni: si pensi a Donald Trump e a Matteo Salvini e alle questioni dell’immigrazione e del sovranismo, tanto per citare due argomenti di cui abbiamo parlato moltissimo in questi anni.
Salvini ma anche Giorgia Meloni, giusto?
Certamente, ricordiamoci che ad esempio poco prima della pandemia, a febbraio 2020, ha inaugurato a Roma la National Conservatism Conference, il principale appuntamento del mondo conservatore a livello internazionale, che quest’anno si svolgerà a fine ottobre a Orlando in Florida. Occasione di confronto a cui hanno preso parte tutti i principali think tank della destra mondiale in cui si costruiva un rapporto culturale con l’America su argomenti quali la libertà individuale, la sovranità, la difesa dei confini, il primato della religione. Gli Stati Uniti, lo dicevamo, sono il punto di riferimento con cui ci si confronta pure per la selezione dei temi.
Con Mario Draghi a Palazzo Chigi questo processo di americanizzazione com’è cambiato?
Quando ci sono i governi tecnici la parte che attiene agli strumenti del consenso in un certo senso è sospesa: si innescano altre dinamiche, non quella tipica della competizione elettorale e, tra virgolette, di vendita del prodotto. In questo momento, quindi, l’influenza è riscontrabile soprattutto in termini politici: Mario Draghi è una sorta di americano acquisito. E’ molto vicino agli Usa, ha fatto parte della Brookings Institution, che è uno dei più importanti think tank americani, ha lavorato in Goldman Sachs. Credo stia facendo perno su Joe Biden anche nella speranza che il presidente Usa possa essere uno scudo contro le tentazioni di ritorno all’austerity dura e pura nella fase post-pandemia.
Ossia, nella prospettiva che, terminata l’emergenza, i falchi possano tornare a prevalere a Bruxelles?
Esattamente, noi stiamo comunque facendo debiti. Una volta che saranno arrivate le risorse dall’Europa, sarà fondamentale che l’America si schieri convintamente nel fronte anti-austerity.
E il tema del finanziamento della politica?
E’ un altro aspetto chiave dell’americanizzazione in atto nel nostro Paese. Com’è noto d’altronde, siamo ormai anche in Italia in una fase nella quale la politica e le campagne elettorali non vengono più finanziate con i soldi pubblici. E allo stesso tempo da noi anche l’attività di lobbying ha cambiato pelle: il rapporto con la politica è diventato un po’ più americano e anche il ruolo dei portatori di interesse si è fatto molto più evidente.
In questo contesto come si inserisce l’associazione Ti candido, di cui anche lei professore è tra i promotori?
Ti candido nasce come operazione di carattere politicamente e culturalmente radicale, sulla base della considerazione che è necessario, come avviene negli Stati Uniti, trovare nuove forme di organizzazione dal basso dell’attività di lobbying, che gli americani chiamano Grassroots. Il presupposto dell’iniziativa si fonda sull’idea che i soldi rappresentino uno degli strumenti chiave dell’attività politica. E’ inutile far finta che non sia così e continuare ad avere questo pregiudizio, come se il denaro fosse lo sterco del demonio. Riuscire a raccogliere risorse è parte integrante del lavoro politico ma in Italia questa attività si fa poco e male.
Quindi anche questa iniziativa è figlia del processo di americanizzazione in atto?
Ci siamo ispirati a uno strumento che si chiama Justice Democrats, che debuttò contribuendo alla vittoria e all’elezione al Congresso di Alexandria Ocasio-Cortez. Certo, sappiamo bene che quel modello da noi non è riproducibile tout-court, visto che non esiste un sistema di primarie in grado di consentire a un outsider di sfidare l’insider e di vincere.
E voi quali candidati sostenete?
Chiediamo loro di avere certe caratteristiche: di essere possibilmente nuovi e di rappresentare interessi sotto-rappresentati, non forti per così dire, come lavoro, minoranze, inclusione. E poi di avere radicamento e riconoscibilità a livello territoriale su battaglie locali in tema, ad esempio, di giustizia sociale e ambientale.
Finora com’è andata?
Abbiamo fatto due sperimentazioni nel 2019 e nel 2020, con un totale di 11 eletti. Tra gli altri voglio citare il sindaco di Legnano Lorenzo Radice, l’italo-egiziana Marwa Mahmoud a Reggio Emilia e la consigliera regionale Elena Ostanel in Veneto.
E per le prossime elezioni d’autunno cosa avete in programma?
Per le prossime amministrative la sfida è di essere presenti nelle cinque principali città al voto, ossia a Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli. L’operazione è più complicata perché nei grandi centri urbani le strutture di partito sono tradizionalmente molto meno ospitali di quanto non lo siano nei piccoli comuni dove di regola le forze politiche organizzate sono in difficoltà e resistono quasi solamente le comunità umane. E poi anche perché ovviamente nelle città più importanti servono molte più risorse per svolgere la campagna elettorale.
E con il Forum di Fabrizio Barca cosa farete?
Abbiamo stretto un’alleanza formale con l’idea di offrire un aiuto ulteriore ai candidati, che sempre più spesso ci chiedono sostegno in termini di idee, organizzazione e proposte concrete. Appunto perché i partiti sono in crescente difficoltà. Faremo un giorno di formazione a settembre anche per dare alcune informazioni sulle modalità di organizzazione della campagna elettorale.
A che punto siete arrivati e come si struttura la vostra attività?
Stiamo cercando i candidati da sostenere, anche se formalmente dobbiamo aspettare la presentazione delle liste elettorali. Insieme al Forum, sceglieremo poi chi appoggiare. Il 15 luglio è terminato il primo round di crowfunding mentre a settembre partirà il secondo con l’obiettivo di supportare direttamente i candidati di Ti Candido.
A proposito di selezione, sosterrete candidati di ogni schieramento politico oppure su questo c’è un orientamento preciso?
Questa è un’operazione di centrosinistra, non un’iniziativa bipartisan. Vogliamo pungolare i partiti di quest’area politica in modo che tornino a fare il loro lavoro. Occorre rendere più sofisticati i processi di organizzazione e di relazione con la società e gli elettori. Non ci sono più le vecchie rendite, ci vogliono lavoro e infrastruttura. Questo è il vero contributo dell’americanizzazione, non basta mettersi una spilla degli Usa o affermare di essere amici di Barack Obama.
E la decisione a chi spetterà?
A noi, a Ti Candido e al Forum. Proveremo a scegliere anche stavolta persone valide e rappresentative, che siano vicine a un’agenda politica nella quale anche noi ci riconosciamo. E non c’è niente di male, aggiungo. Come appunto una lobby Usa dal basso.