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Cosi la Nato può aiutare l’Africa. Conversazione con Sambe (Timbuktu Institute)

Lo sviluppo e le crisi regionali, dal terrorismo in Sahel all’erosione dei percorsi verso la democrazia. L’Africa è un continente in crescita, ancora incompreso e pieno di complessità. Un’analisi approfondita di Bakary Sambe (Timbuktu Institute)

La nuova variante del Covid arrivata dal Sudafrica ha dimostrato come l’Africa sia un continente ancora pieno di contraddizioni e complessità (per esempio quelle che riguardano diffusione e organizzazione delle campagne vaccinali), nonostante le enormi opportunità che si trova davanti. Lo stesso vale per gli sviluppi politici e securitari che nelle ultime settimane sono usciti da Etiopia e Sudan, o per i golpe in Mali e Ciad, per le penetrazioni di potenze internazionali (vedere la Russia in Mali o la vicenda dell’aeroporto in Uganda), per le attenzioni che Unione europea e Stati Uniti pongono sulle potenzialità e su attività dei rivali strategici nel continente. “L’Africa sta crescendo, e l’Occidente non ne ha compreso tutte le implicazioni”, come ha scritto su Twitter l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo.

Formiche.net ha fotografato la situazione in Africa in una conversazione con Bakary Sambe, direttore del Timbuktu Institute-African Center for Peace Studies di Dakar. Sambe, che ha recentemente partecipato all’evento “Arab Geopolitics 2021” della Nato Foundation, spiega che “la combinazione di nuovi fattori complicherà ulteriormente la questione saheliana, mentre la Libia è lontana dal trovare la pace, il continente deve gestire nel frattempo l’influenza russa, l’ambizione cinese e l’emergere di nuove potenze come la Turchia oltre alla rivalità marocchino-algerina”.

“Paradossalmente  – continua – in un momento in cui anche i gruppi terroristici cercano di coordinarsi con le reti criminali transnazionali, i partner internazionali competono disperdendo i loro sforzi. Nel solo Sahel, ci sono ora più di 20 strategie diverse, la maggior parte delle quali progettate fuori dal Sahel e senza saheliani. Mentre gli Stati Uniti tornano sulla scena mondiale con l’era Biden, l’Alleanza Atlantica è ancora scossa dalla crisi dei sottomarini in Australia, dove un campo anglosassone prende forza e la Francia sembra essere in difficoltà con i suoi partner saheliani. Certamente, la Turchia si imporrà maggiormente in futuro sul piano commerciale e nella costruzione di infrastrutture beneficiando, come la Cina, dell’immagine di un Paese senza passato imperiale, orientato principalmente alla conquista di nuovi mercati a scapito delle ex potenze coloniali”.

La Turchia è un Paese molto attivo in Africa: recentemente il presidente Recep Tayyp Erdogan ha fatto una visita in alcuni Paesi collegati per strutturare ancora di più questa presenza. “Alla fine – aggiunge Sambe – il terreno saheliano pone ancora diverse sfide ad Ankara, che sono lontane dall’essere affrontate per affermarsi come un giocatore imponente nel grande gioco che si sta svolgendo nella regione. Ankara non ha ancora la potenza economica della Cina con le sue leve diplomatiche e strategiche, né l’ancoraggio storico nell’élite politica come i partner occidentali, e ancor meno l’agilità diplomatica per costruire un capitale d’immagine al punto da compensare il suo svantaggio rispetto al Marocco e all’Arabia Saudita, in particolare sul mercato dei beni simbolici e religiosi”.

L’effetto più deplorevole di questa dura competizione tra le potenze classiche e quelle emergenti è il declino della democrazia nel continente: preoccupazione espressa in più modi in queste ultime settimane da Washington, che fa della tutela dei valori democratici un vettore di politica estera davanti ai rivali che rivendicano il modello autoritario come più pragmatico e funzionale. “Negli anni ’80 e ’90, quando un regime di un qualsiasi paese africano violava le regole del gioco democratico, era esposto alle sanzioni finanziarie dei partner internazionali, soprattutto occidentali. Questo timore è ora completamente dissipato dalla disponibilità di fondi alternativi, a volte molto più consistenti, provenienti da paesi meno attenti alla trasparenza o al rispetto dei diritti umani, come quelli del Medio Oriente o dell’Asia, che vengono definiti donatori autoritari nei circoli della cooperazione internazionale”, risponde lo studioso africano.

“Questo – continua – è un sollievo per tutti i regimi dispotici, ma un tormento per le società civili africane che lottano per la democrazia e i diritti umani. Non solo sono diventate orfane dei partner internazionali con i quali condividevano gli stessi valori democratici, ma sono sempre più spinte da movimenti religiosi o populisti che sfruttano la fibra nazionalista, celebrando anche colpi di stato come recentemente in Mali“.

Quali sono le crisi che preoccupano il continente? “In primo luogo, il futuro della democrazia appare fosco nell’Africa subsahariana, dove i vecchi regimi stanno invecchiando male mentre nuovi movimenti populisti emergono all’orizzonte, nutrendosi, se necessario, della manipolazione dei simboli religiosi. Per darsi una legittimità che hanno perso da tempo in campo politico, gli Stati, che non sono più fornitori di cittadinanza e sicurezza, fanno a gara in questa folle corsa”, risponde l’esperto.

“In secondo luogo – aggiunge – gli attori politici stanno seguendo la stessa strada, anch’essi senza prospettive da offrire a una gioventù sconvolta, e si gettano nelle braccia dei gruppi religiosi che hanno il vento in poppa nel Sahel, contro coloro che aspirano alla costruzione di società veramente democratiche. Alcuni paesi della regione hanno vissuto attacchi e incursioni periodiche degli Shebab molto prima del Mozambico (la Tanzania, per esempio). Ma anche se sembrano preoccupati per il deterioramento della situazione della sicurezza, non vogliono essere teatro di un intervento regionale o internazionale”.

La sicurezza è un tema enorme: non solo il Sahel, la regione dei Grandi Laghi, già afflitta da conflitti senza fine, non vi è esclusa. L’Allied Democratic Forces (ADF), un gruppo armato ugandese che si è stabilito nella provincia del Nord Kivu dalla metà degli anni ’90, ha giurato fedeltà all’Isis per esempio. “Attacchi sono stati compiuti al confine congolese-ugandese, e l’Isis, che intende diffondersi dal Mali alla Somalia, ha annunciato la nascita di una delle sue filiali africane, chiamata Provincia dell’Africa centrale”, spiega Sambe. Allo stesso tempo, nel Sahel, nonostante le parziali vittorie annunciate contro gruppi terroristici come lo Stato Islamico nel Grande Sahara, le tensioni intercomunitarie non diminuiscono, in particolare nella zona tri-frontaliera di Liptako Gourma.

“Queste renderanno più complessa l’azione dei partner internazionali dei paesi del Sahel, che dovranno gestire altri tipi di conflitti diversi dal terrorismo islamista. Allo stesso tempo, gli interventi militari occidentali saranno sempre più difficili da giustificare da parte dei regimi poco legittimati al potere nella regione, mentre l’operatività di meccanismi alternativi come l’African Standby Force rimane una pia speranza lontana dall’essere realizzata. Se non c’è una consapevolezza collettiva della necessità di unire le forze per affrontare le vulnerabilità al terrorismo, non sarà solo l’Africa a soffrire, ma l’Europa non sfuggirà alle conseguenze di una destabilizzazione del Sahel con ondate di rifugiati e migranti”.

Per Sambe c’è un problema di percezione del conflitto, uno iato tra approcci internazionali globali e percezioni locali: “È ora di dare la dignità di soluzioni a possibilità e strategie endogene. Lo stallo saheliano che sta emergendo per l’opzione solo militare è accoppiato a un dilemma che sta nella difficile posizione degli stati della regione e dei loro partner internazionali. Nelle soluzioni proposte per combattere il terrorismo, abbiamo quasi perso il senso delle priorità. Siamo arrivati a un punto in cui ci troviamo di fronte a questioni profonde tra l’imperativo di gestire le emergenze di sicurezza e la necessità di un cambiamento di paradigma di fronte all’evidente fallimento dell’approccio all-military“.

La soluzione? “Per il Sahel sarà necessariamente co-costruita o non sarà trovata presto. Di fronte al fallimento delle iniziative militari solitarie come Serval e Barkhane (organizzate dalla Francia, ndr), c’è bisogno di una maggiore sinergia e la Nato dovrebbe avviare questa riflessione collettiva in vista delle questioni sul tavolo, che stanno trasformando il Sahel in una nuova area per il grande gioco a venire”.

La Nato potrebbe svolgere un ruolo di primo piano nel coordinamento dell’azione militare, in grado di romperebbe questi schemi attuali e andare verso una messa in comune delle capacità? “Credo di sì. La messa in operatività della forza africana di riserva, che richiederebbe enormi risorse, potrebbe essere meglio sostenuta dalla NATO. Permetterebbe una migliore adesione delle popolazioni alle strategie di lotta contro il terrorismo soprattutto dopo l’esperienza afgana e i suoi risultati. Allo stesso tempo, eviterebbe che i partner internazionali come l’Europa, che dovranno sostenerla con la logistica e l’intelligence, si guadagnino un’immagine negativa presso le popolazioni, mentre fanno sforzi considerevoli nel quadro delle loro azioni a favore della sicurezza collettiva”, spiega Sambe.


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