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Cosa c’è dietro la svolta iper-comunicativa della Cia sull’Ucraina

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Secondo gli esperti siamo davanti a una vera e propria battaglia dell’informazione tra Russia e Stati Uniti. Questi ultimi però, guidati da Haines e Burns, hanno imparato dagli errori del passato. “Più Washington espone le azioni e le intenzioni di Mosca, meno vie d’uscita salva-faccia ha Putin”, ha scritto London, ex Cia

La strategia dell’intelligence statunitense, e occidentale in generale, sulla situazione nell’Europa orientale è diventata ancor più evidente con la reazione all’annunciato ritiro delle truppe russe dal confine con l’Ucraina.

“Ogni indicazione che abbiamo ci dice che intendono solo fare affermazioni sulla riduzione dell’escalation, mentre si preparano silenziosamente per la guerra”, ha detto un alto funzionario dell’amministrazione statunitense in un briefing con la stampa di mercoledì smentendo le promesse russe. Gli ha fatto eco il tenente generale Jim Hockenhull, capo dell’intelligence militare del Regno Unito, che in una rarissima dichiarazione pubblica ha spiegato che “non abbiamo visto prove del ritiro” e che al contrario di quanto detto “la Russia continua a consolidare le sue forze vicino all’Ucraina”. Nelle stesse ore, quelle della riunione dei ministri della Difesa dei Paesi Nato, Jens Stoltenberg, segretario generale dell’’Alleanza atlantica, ha ribadito che “non c’è stata nessuna de-escalation” e ha dichiarato che la Russia sta continuando ad ammassare “la più grande concentrazione di forze in Europa dai tempi della Guerra fredda”.

Nella giornata di venerdì Michael Carpenter, ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Osce, ha accusato la Russia di aver “probabilmente ammassato tra 169.000 e 190.000 effettivi in Ucraina e nelle vicinanze, rispetto ai circa 100.000 del 30 gennaio”, ha detto Carpenter (l’indicazione della presenza di truppe “dentro” il Paese è probabilmente un riferimento alle aree dell’Est controllate dai separatisti sostenuti dalla Russia).

Assieme all’intelligence statunitense, a verificare le promesse russe c’è anche Maxar Technologies, una società che ha sede in Colorado. Si occupa di comunicazioni satellitari. Da diverso tempo ormai, gli esperti dell’azienda stanno tenendo d’occhio i territori che confinano con l’Ucraina dando grande visibilità al suo monitoraggio dei movimenti delle truppe russe con la forza delle immagini riprese sui social e da tutte le testate giornalistiche. Maxar Technologies ha importanti rapporti negli Stati Uniti: per esempio, collabora in SpaceNet, organizzazione che si occupa di intelligence per applicazioni geospaziali, con In-Q-Tel. Quest’ultimo è il fondo di venture capital della Cia, noto per aver investito in passato in Palantir, società i cui strumenti di sorveglianza elettronica sono stati utilizzati dall’intelligence statunitense e dal Pentagono.

Ex consulente di Palantir è uno dei due protagonisti della svolta iper-comunicativa dell’intelligence statunitense pensata per sminare il campo da invasioni e operazioni false flag pensate per scatenare la più grande guerra in Europa dagli anni Quaranta: Avril Haines, ex vicedirettrice della Cia, oggi a capo della comunità d’intelligence nazionale. L’altro è William Burns, direttore della Cia, diplomatico di lungo corso, ex ambasciatore in Russia, che si è recato a Mosca per un incontro urgente il 2 novembre con i massimi funzionari della sicurezza russa.

La loro comunicazione è opposta a quella del confitto in Ucraina del 2014: allora i funzionari dell’intelligence avevano bloccato l’amministrazione guidata da Barack Obama (in cui Biden era vicepresidente) dal condividere le informazioni. “Abbiamo imparato molto, soprattutto dal 2014, su come la Russia usa lo spazio informativo come parte del suo apparato generale di sicurezza e militare”, ha detto Emily J. Horne, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale. “E abbiamo imparato molto su come negare loro un certo impatto in quello spazio”.

Oggi l’amministrazione statunitense – a partire dal presidente Joe Biden – condivide le informazioni con il Congresso, con gli alleati e con il pubblico. Basti pensare che dopo il viaggio a Mosca di Burns per portare un messaggio chiaro di attenzione statunitense alla situazione in Ucraina, Haines si è recata a Bruxelles per informare gli alleati della Nato sull’intelligence relativa proprio all’Ucraina. In quell’occasione gli Stati Uniti hanno abbassato i livelli di classificazione per gli alleati in modo che le informazioni sensibili potessero essere condivise.

Secondo alcuni esperti siamo davanti a una vera e propria battaglia dell’informazione, in cui la Russia parte avvantaggiata essendo un’autocrazia, e il presidente Vladimir Putin un ex Kgb, come dimostrano molti casi in cui la disinformazione di Mosca, parte fondamentale della guerra ibrida, ha fatto breccia in Occidente. “Penso che sia fantastica” la gestione da parte di Washington, ha detto Beth Sanner, ex alto funzionario dell’intelligence, al New York Times. “La mia ipotesi è che queste rivelazioni stiano spaventando il Cremlino e i servizi di sicurezza. E, cosa più importante, possono restringere le opzioni di Putin e farlo pensare due volte”. “Più Washington espone le azioni e le intenzioni russe, meno vie d’uscita salva-faccia ha Putin”, ha scritto Douglas London, ex operativo della Cia, su Foreign Affairs.

“Queste tattiche aggressive hanno controllato i vantaggi abituali della Russia di sorpresa e furtività”, ha scritto David Ignatius sul Washington Post. “Il lavoro di declassificazione è stata una delle mosse più aggressive della comunità d’intelligence”, ha osservato il Time, “da quando l’amministrazione Kennedy ha aperto i suoi quaderni sulla crisi dei missili di Cuba”. L’obiettivo è far sì che il Cremlino si ritiri come fatto nel 1962 dall’Avana, secondo il settimanale.

Nei giorni scorsi i funzionari dell’amministrazione Biden aveva messo in guardia il Congresso avvertito sugli enormi costi umani in caso di invasione. La reazione di Mosca è stata dura, forse frutto un po’ anche della sorpresa della svolta iper-comunicativa: “La follia e l’allarmismo continuano”, ha scritto, Dmitry Polyanskiy, vice ambasciatore russo alle Nazioni Unite, su Twitter. “E se dicessimo che gli Stati Uniti potrebbero impadronirsi di Londra in una settimana e causare 300.000 morti civili? Tutto questo sulla base delle nostre fonti di intelligence che non riveleremo”.

Il Time ha sottolineato che “a volte” quest’approccio statunitense “ha colto i funzionari russi di sorpresa, incerti sul pensiero di Vladimir Putin in un regime in cui il potere è solo nelle sue mani”. Inoltre, ha alimentato i sospetti di avere una talpa, “rendendo paranoico un già isolato erede del Kgb”. Viene da chiedersi se la decisione russa di espellere Bartle B. Gorman, vice capo missione degli Stati Uniti a Mosca, non sia legata a questo. Grande esperto di sicurezza diplomatica, con il suo curriculum, Gorman “è proprio colui che gli Stati Uniti vorrebbero sul posto in un momento di crisi”, ha notato Christopher Burgess, veterano della Cia, su Twitter.

Tuttavia, questa apertura targata Haines-Burns – seguita anche da Richard Moore, capo del Secret Intelligence Service britannico, che ha messo il concetto “più aperti per essere più segreti” al centro del suo primo discorso pubblico poche settimane fa – presenta anche dei rischi. Tra questi, il disagio espresso dal governo ucraino, con il presidente Volodymyr Zelensky secondo cui “troppe informazioni” su una possibile offensiva russa hanno seminato paura inutile. Ma anche il grosso rischio di rivelare le fonti o di perdere credibilità in caso di informazioni sbagliate. È anche per questo che l’amministrazione Biden si è affrettata a fare distinguo con la guerra in Iraq nel 2003: allora l’intelligence è stata “utilizzata e schierata” per “iniziare una guerra”, oggi “stiamo cercando di fermare una guerra”, ha dichiarato nei giorni scorsi Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale.

Inoltre, secondo Thomas Rid, professore di studi strategici alla Johns Hopkins University e autore di un libro fondamentale della disinformazione dal titolo Active Measures, questa “declassificazione così aggressiva” da parte dell’amministrazione Biden e dalla comunità d’intelligence “può essere un segno che noi qui a Washington stiamo sopravvalutando il potere della disinformazione a causa di quanto accaduto nel 2016 e poi nel 2020”. Tradotto: “Potremmo attribuire troppo potere alla disinformazione”, ha spiegato al Time. E il risultato di “iper-declassificazione e live-tweeting del feed dell’intelligence russa, in senso figurato” rischia di “dipingere la Russia come ancora più pericolosa”. Dunque, dare ragione a Putin, che secondo diversi analisti è convinto che gli Stati Uniti prendono sul serio la Russia solo quando il Cremlino minaccia azioni militari.

Secondo Ignatius, in questa fase, però, il presidente russo potrebbe aver sperato di sfruttare la debolezza politica di Biden, dopo il “ritiro pasticciato dall’Afghanistan” e il tonfo nei sondaggi. Ma proprio ciò potrebbe aver rafforzato il presidente statunitense che, ha scritto la firma del Washington Post, non poteva mostrarsi inclina al compromesso: “Ha scelto politiche dure e vi si è attenuto. E ha fatto della Nato, disprezzata dal suo predecessore Donald Trump, la pietra angolare della sua politica”. Così, ha spiegato ancora Ignatius, “gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato hanno combattuto Putin nel gioco d’informazione”. A gennaio, il dipartimento di Stato ha rivelato un piano segreto dell’intelligence russa per reclutare ucraini per destabilizzare il Paese, il Regno Unito ha rivelato un piano russo per insediare a Kiev un governo pro Mosca, il segretario di Stato Antony Blinken e i colleghi europei hanno cercato di spiegare il manuale di disinformazione russa per prevenire tentativi di destabilizzazione in Ucraina.

Putin “ha fatto un’enorme scommessa che l’Occidente avrebbe fatto marcia indietro in Ucraina” ma “la grande sorpresa” per lui è di aver “trovato in Biden un avversario risoluto”, ha concluso Ignatius.

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