La Coalizone a guida americana che combatte l’ex Califfato si è riunita in Marocco. La minaccia è ancora esistente, l’Is è presente con la predicazione online e con attività sommerse, anche in Europa
L’obiettivo è ambizioso, ma non può che essere tale: sconfiggere definitamente lo Stato islamico. È questo il fine della Global Coalition anti-Daesh (Is) che si è riunita in Marocco per l’assise annuale. Lo scorso anno toccò a Roma ospitare la riunione, e il ministro Luigi Di Maio, co-presidente insieme all’omologo americano e presente al meeting anche quest’anno, finì vittima della cyber propaganda dei terroristi — un classico del genere.
In Marocco il segretario di Stato americano, Antony Blinken, avrebbe anche quest’anno dovuto co-presiedere l’incontro con il ministro degli Esteri ospitante, Nasser Bourita, ma è risultato positivo al Covid-19 ed è stato sostituito dall’alta diplomatica Victoria Nuland. Gli americani hanno ruolo di coordinamento e guida del gruppo perché di fatto questo sono.
La Global Coalition è l’aggiornamento 2.0 della “War on Terror”, all’interno della quale però gli Stati Uniti stanno inglobando con ruoli sempre più importanti alleati e partner. È una necessità strategica per allentare il coinvolgimento generale ed evitare in conflitti impantanati, ma dirigere le operazioni in forma più puntuale e diretta.
Con Daesh (acronimo arabo dello Stato islamico che ha forma dispregiativa e per questo viene usato anche in Occidente) è servito un impegno maggiore negli anni tra il 2014 e il 2017, e Washington ha risposto con un’attività intensa soprattutto a livello di intelligence e raid aerei. Adesso che la dimensione statuale del Califfato è stata del tutto disarticolata, l’impegno nel contrastare eventuali emergenze e nel dare la caccia alle cellule fantasma è una missione congiunta.
“Negli ultimi anni, l’Isis (vecchio acronimo dello Stato islamico, quando ancora l’obiettivo era solo Iraq e Siria, ndr) è stato notevolmente indebolito in Iraq e in Siria, ma rimane una minaccia, alla ricerca di qualsiasi opportunità per ricostituirsi”, ha detto Nuland. Minaccia che non è diminuita dal punto di vista della portata narrativa e delle attività sotto traccia. Per questo la coalizione sta cercando di raccogliere 700 milioni di dollari per “attività di stabilizzazione” in parti dell’Iraq e della Siria precedentemente amministrate dal gruppo.
Il quadrante iracheno è particolarmente interessante per l’Italia che ha iniziato a guidare la missione locale della Nato, la quale (secondo la visione statunitense e in accordo con lo Shape) nel breve termine dovrà orientare ulteriormente le proprie attività proprio nel contrasto al terrorismo. Lavoro che passa anche da quelle citate stabilizzazioni: Abu Bakr al Baghdadi aveva trovato spazio per le proprie istanze proprio in Iraq, in un paese squarciato dall’occupazione americana e poi guidato in modo settario dagli sciiti del governo Maliki. Contesto che aveva reso le predicazioni jihadiste particolarmente credibili per i giovani sunniti.
Gli sforzi di stabilizzazione in aree precedentemente occupate/controllate/pervase dall’Is, la comunicazione strategica contro la propaganda con cui il gruppo spinge la radicalizzazione del gruppo nel mondo, la lotta agli spostamenti di combattenti e predicatori da un teatro all’altro: sono questi gli obiettivi della Coalizione.
L’incontro che si è tenuto a Marrakech tocca un territorio delicato. Diversi gruppi jihadisti hanno dichiarato affiliazione allo Stato islamico nella regione del Sahel e in Africa occidentale, e i baghdadisti hanno iniziato attività di coordinamento per rafforzare questa loro presenza. Recentemente gruppi affiliati all’Is che avrebbero trovato un accordo con le componenti collegate ad al Qaeda nel Sahel: si tratta di un’intesa a livello locale, per ora senza implicazioni strategiche, ma comunque significativa se si considera che qaedisti e baghdadisti competono come nemici per la leadership del jihadismo globale.
Un fattore di complicazione se si considera inoltre che gruppi che hanno giurato fedeltà al Califfato si trovano in aree di particolare sensibilità strategica, come quella di Cabo Delgado in Mozambico, dove si trovano i reservoir di idrocarburi da cui i Paesi europei intendono bilanciare lo sganciamento dalla dipendenza russa. Lo stesso vale per il Sahel, tagliato da gasdotti come il Nigal, in costruzione, e delle aree remote tra Algeria e Tunisia o tra Tunisia e Libia. In quelle regioni sono attive operazioni antiterrorismo occidentali, ma alcuni Paesi come il Mali hanno preferito sostituire certe cooperazioni con quelle offerte da società private come la russa Wagner (che proprio in Mali si è resa protagonista di massacri durante alcune azioni contro i gruppi armati nelle quali non sono stato discriminati gli obiettivi civili).
A gennaio i combattenti dell’Is hanno lanciato il loro più grande assalto degli ultimi anni, un’evasione nella città di Hasakeh, nel nord-est della Siria controllata dai curdi, scatenando una settimana di intensi combattimenti che hanno causato centinaia di morti e coinvolto la reazione americana. Nuland ha definito quell’attacco “un promemoria delle loro intenzioni e un campanello d’allarme su quanto sia insostenibile l’attuale situazione nel nord-est della Siria”. I baghdadisti hanno giurato di vendicarsi per la morte del loro leader Baghdadi, che si è fatto esplodere durante un raid statunitense nel nord della Siria alla fine del 2019.
Cellule sono presenti in Europa e ancora tramite gli spazi online il Califfato è in grado di ispirare azioni individuali. Inoltre, negli anni i baghdadisti potrebbero aver aumentato le loro capacità informatiche rendendo il campo del cyber terrorismo una ulteriore potenziale minaccia. Attraverso le predicazioni e la propaganda, lo Stato islamico ha inoltre esortato i suoi sostenitori ad approfittare del caos prodotto dalla guerra in Ucraina — che raccoglie molte delle attenzioni in termini di sicurezza — per compiere attacchi in Europa. Il rischio sirianizzazione del conflitto si lega anche a questo.