Il ministro del Commercio australiano ha invitato Bruxelles ad accelerare per la ratifica di un trattato, soprattutto nell’ottica di investimenti e approvvigionamento di materie prime critiche. La corsa è aperta, con gli Stati Uniti un passo avanti
La crescita della domanda globale di litio, nichel e terre rare per la transizione energetica offre una straordinaria opportunità per i paesi ricchi di risorse. Tra questi, l’Australia è uno dei paesi benedetti dalla propria ricchezza geologica, ed ora al centro dell’attenzione di governi e imprese nell’ottica di inserirsi nella catena del valore delle batterie elettriche. Scelte e decisioni che, se prese ora, avranno un impatto importante su come l’industria si configurerà a partire dal 2030. Anno in cui, secondo le più recenti stime dell’International Energy Agency (Iea), la domanda di minerali come litio, rame, nichel e cobalto potrà aumentare di 3,5 volte rispetto al 2021.
A trainarla, specialmente la crescita dirompente del mercato dei veicoli elettrici (Ev). Secondo le stime McKinsey, gli Ev equipaggiati con batterie al litio cresceranno del 26% entro la fine di questo decennio. Tesla prevede che, solo per le sue esigenze industriali, necessiterà di 1.000 kilotoni di litio carbonato equivalente (LCE) all’anno, circa 16 volte i consumi del 2022. Una delle esigenze impellenti è quella di diversificare la supply chain, dalle miniere alle fasi di raffinazione, il più possibile dalla Cina. Per farlo, serve investire e collaborare con i paesi ricchi di risorse, oltre a costruire le necessarie capacità industriali per una filiera competitiva.
Ed è qui che si inserisce l’Australia, non solo per il litio. Insieme a Cile, Cina e Argentina possiede il 76% delle riserve mondiali, oltre ad essere già il principale produttore di spodumene (minerale roccioso), con il 43% delle attività estrattive, e da cui la Cina, suo principale partner che conta per oltre il 90% delle sue esportazioni, ne ricava l’idrossido di litio (77% della raffinazione), l’ingrediente cruciale per fabbricare i catodi delle celle per batterie. Ed è, inoltre, casa dell’unica azienda mineraria attiva nella fase di estrazione e separazione di ossidi di terre rare, Lynas Corporation, finanziata dal Dipartimento della Difesa americano.
La ricchezza e il know-how minerario australiano, oltre che essere una giurisdizione storicamente attrattiva per gli investimenti del settore e paese anglofono, parte del Quad e dei Five Eyes, ne fanno un partner quasi naturale per gli Stati Uniti. Proprio con Washington è stato firmato un accordo di cooperazione su clima, clean-tech e materiali critici, che faciliterà gli investimenti congiunti nel solco dell’Inflation Reduction Act (Ira). Condizione essenziale, naturalmente, l’esistenza di un accordo di libero scambio (Fta).
Accordo che gli Usa cercano di finalizzare con l’Ue, seppur Bruxelles non abbia nascosto parecchia irritazione per l’impatto protezionistico e dicriminatorio dell’Ira. Ma non c’è da stupirsi se commercio e sicurezza nazionale, negli Stati Uniti, siano da sempre stati molto intrecciati. Ora l’Australia chiama l’Europa. A farlo, è il suo ministro del Commercio, Don Farrell. Secondo Reuters, le dichiarazioni di Farrell dimostrano che l’Australia vorrebbe barattare le sue vaste ricchezze minerarie, tanto richieste dall’emergente industria delle batterie europea in assenza, nel breve-medio periodo, di forniture domestiche, per siglare un accordo di libero scambio. Le negoziazioni si sono arenate lo scorso luglio.
La dipendenza dell’Ue sulle materie prime critiche è, infatti, ben più preoccupante di quanto lo sia per gli USA, che hanno dimostrato con l’Ira volotnà politica e spazio fiscale per chiudere il gap con la Cina. L’Europa, seppur con il Critical Raw Materials Act abbia fissato ambiziosi target, per ora non sembra poter rivaleggiare con l’alleato americano sul piano delle risorse. Lo sguardo europeo è sull’America Latina, con cui è stato firmato a fine luglio un partenariato strategico. Ma potrebbe essere rischioso scommettere solo sulla regione sudamericana.
La concorrenza è agguerrita, ma soprattutto pragmatica. Le aziende cinesi sono attive da più di cinque anni in Cile e Argentina, e possiedono, oltre alle capacità finanziarie, quelle tecnologiche e di raffinazione. L’Europa parte, dunque, in svantaggio. “Uno dei grandi vantaggi che abbiamo in questa relazione – ha detto Farrell in riferimento all’UE – è il nostro accesso ai minerali critici, alle terre rare, all’idrogeno e ammonia. Altri paesi stanno investendo nei nostri minerali critici e sulle rinnovabili. Vogliamo investimenti europei… ma devono capire che come parte di questo negoziato devono fare un’offerta realistica.”
Aziende americane, giapponesi e coreane guardano con grande interesse all’Australia, soprattutto su litio e terre rare, soprattutto per allentare il dominio cinese. Il governo australiano, inoltre, vuole incentivare la localizzazione degli stadi a maggior valor aggiunto, trattenendo le risorse per poter essere trasformate in materiali battery grade. L’americana Albemarle e la cinese Tianqi Lithium stanno già costruendo, in joint venture con le controparti australiane (Mineral Resources e Igo) impianti di raffinazione per l’idrossido di litio. Un mercato da 10 miliardi di dollari all’anno entro il 2030.
Sarà dunque cruciale per le aziende europee, e Bruxelles, coordinare gli sforzi per ottenere eventualmente dall’Australia l’accordo più in equilibrio con la supply chain e la volontà di Canberra. Acquisire materiale grezzo, entrando in competizione direttamente con le industrie cinesi, o investire direttamente in capacità in loco sfruttando il potenziale australiano in termini di costi e sostenibilità delle operazioni?
Il problema sostanziale rimane l’elefante nella stanza, ovvero l’Inflation Reduction Act. Perchè l’Australia è particolarmente adatta a soddisfare le esigenze del mercato statunitense: mentre Canada e Cile sono anch’essi Paesi FTA, l’Australia può fornire idrossido di litio al costo più basso. Dovrà solo decidere a chi venderlo, e probabilmente sarà il compratore con l’offerta migliore. E tutto punta a scommettere sui battery makers americane, considerando gli incentivi fiscali dell’IRA per i materiali provenienti da paesi FTA.
Ovviamente, cercando di limitare la presenza cinese – come accaduto per Astroid Corporation – tramite il comitato sugli investimenti esteri (Firb), evitando l’irritazione degli Usa che cercano proprio nell’Australia non solo un partner commerciale, ma anche di sicurezza, nella corsa alla diversificazione delle forniture di materie prime critiche.