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Il terremoto a Taiwan scuote l’industria dei chip

La scossa di magnitudo che ha colpito l’isola ricorda al mondo i rischi di un’eccessiva concentrazione della produzione di semiconduttori nel Paese. Un evento che potrebbe accelerare la diversificazione delle forniture: ma la strategia richiede tempo e risorse per il pay-out

In questi casi, prima di qualsiasi riflessione razionale sull’impatto di questo disastro naturale sull’economia e la politica internazionale, serve fare una premessa. Il terremoto che ha colpito l’isola di Taiwan è innanzitutto una tragedia umana: la conta dei morti e dei dispersi sarà probabilmente destinata a salire, così come l’eco delle espressioni di vicinanza che arriveranno da tutta la comunità internazionale.

La scossa, di circa 7.4 gradi della scala Richter e la più intensa da almeno 25 anni, ha causato il collasso di almeno una trentina di edifici secondo le prime ricostruzioni, con un migliaio di feriti. Tuttavia, è ancora troppo presto per una stima ufficiale. Quello che possiamo sin da ora immaginare, è l’inizio di una serie di reportage che andranno anche a focalizzarsi sul ruolo, strategico, che quest’isola gioca non solo negli equilibri geostrategici della regione tra Cina e Stati Uniti, ma nella produzione di quelli che sono a tutti gli effetti i dispositivi che permettono il funzionamento della società moderna, non solo quella digitale.

Sono infatti le ripercussioni del terremoto sulla continuità degli impianti che producono semiconduttori, e di proprietà di Taiwan Semiconductor Manufacturing Corporation (TSMC), di United Microelectronics Corporation (UMC), Vanguard International Semiconductor Corp e Powerchip oltre ad aziende estere come Micron, a gettare una nuova ombra sul funzionamento di una supply chain che era già stata messa a dura prova con la pandemia da Covid-19 e ora sotto la scure della competizione tecnologica tra Usa e Cina.

La possibilità di un nuovo ‘cigno nero’, meno improbabile di un’epidemia globale, era da tempo sotto la lente degli analisti che guardavano con preoccupazione la possibilità che un evento simile potesse nuovamente mettere sotto scacco l’industria tecnologica: dagli smartphone ai chip per l’intelligenza artificiale, passando per apparecchiature mediche e dispositivi militari. Gran parte dei semiconduttori che vengono impiegati nell’elettronica avanzata (circa il 60% della capacità wafer-per-month) vengono realizzati negli impianti localizzati su Taiwan. Secondo alcune stime, il 90% dei chip logici avanzati solo dalle fonderie di TSMC che ha come clienti del calibro di Nvidia, Apple, AMD e anche Tesla. Ma non solo: Taiwan è anche tra i principali produttori di wafer di silicio, insieme al Giappone (alcune aziende come Tokyo Electron e Ebara, fornitore di macchinari per il lavaggio dei wafer, hanno impianti localizzati vicino alle fonderie taiwanesi), mentre Ase Group, società di packaging, è responsabile di quasi la metà del mercato a livello globale. Nel complesso, Taiwan e il Giappone, due Paesi considerati ad alto rischio di attività sismica, ospitano quasi 200 impianti di fabbricazione.

Si tratta di un “singolo punto di rottura” dell’intera industria dei semiconduttori, e dunque dell’economia globale, suscettibile a shock esogeni di questo tipo e non solo. Secondo le stime di Bloomberg Economics, un eventuale conflitto tra Usa e Cina nello stretto potrebbe comportare oltre $13.5 trilioni di perdite per l’economia globale (ricordiamo che Taiwan è un esportatore di prodotti di elettronica, mentre lo Stretto è tra i punti più trafficati del commercio internazionale), pari a circa il 10% del Pil globale. Un’eventualità che sarebbe ben più devastante della pandemia o della crisi finanziaria del 2008, dal momento che andrebbe a toccare un nervo scoperto delle catene globali del valore.

Al momento, è ancora in corso la valutazione dei danni. La sola Tsmc possiede sull’isola una decina di impianti di fabbricazione (fab), concentrate per lo più nel Hsinchu e Tainan Science Park (in quest’ultima, sono ospitate le fonderie che producono i chip avanzati ai processi da 5 e 3 nanometri che ormai contano per quasi la metà del fatturato di Tsmc), e quattro siti per il packaging avanzato. La più piccola UMC, che possiede 9 impianti sempre nella zona speciale dedicata all’industria dei chip, ha riportato di aver stoppato alcuni impianti ed evacuato il personale. L’americana Micron, che produce chip di memoria, possiede invece alcuni siti a Taoyuan. Tuttavia, sembrerebbe che l’epicentro del terremoto fosse localizzato a pochi chilometri dalla costa ad est dell’isola, mentre gran parte di questi siti sono localizzati nella parte occidentale. L’isola, che a livello geografico è collocata in una faglia tra due placche tettoniche, è dunque fortemente sensibile per rischi sismici. L’ultimo, devastante, fu registrato il 21 settembre del 1999, di magnitudo 7,6 e con l’epicentro molto più vicino all’industria. Causò interruzioni di corrente a livello nazionale, danni in tutta la parte centrale di Taiwan e uccise quasi 2.500 persone. In seguito all’evento, i prezzi dei circuiti integrati DRAM aumentarono del 25% e la scarsità sui mercati persistette per mesi.

In un comunicato stampa, Tsmc ha dichiarato che “i sistemi di sicurezza stanno funzionando correttamente” mentre per protocollo sono in corso le valutazioni dei potenziali danni nelle fonderie, con la sospensione almeno in giornata delle attività. Proprio in seguito all’ultimo terremoto, l’azienda ha predisposto dei piani per affrontare tale eventualità, che si ripresentò il 6 febbraio 2016 (la scossa allora uccise 116 persone), colpendo la parte meridionale dell’isola nel distretto Mei-Nong di Kaohsiung. È stato il terremoto più potente mai avvertito dalle fabbriche TSMC Fab 6 e Fab 14 nel Tainan Science Park: per la Fab 14A la consegna dei wafer subì un ritardo di circa 50 giorni, ma all’epoca l’azienda stimò che non più dell’1% delle spedizioni del primo trimestre sarebbe stato interessato.

Allo stato attuale, è dunque difficile stimare quali potrebbero essere gli impatti sulle consegne qualora vi siano effettivi stop nella produzione. Minimi intoppi sono tuttavia prevedibili considerando la complessità delle strutture, le fab, in cui i wafer di silicio vengono trasformati in microprocessori. Una delle principali regole per la costruzione delle fab è infatti la necessità di tenerle ‘pulite’. Un edificio di questo genere deve avere un sistema di circolazione dell’aria attivo e con un filtraggio che viene attivato 5 o 6 volte all’ora; una cleanroom di prima classe, ovvero l’area dove vengono effettuati i passaggi più delicati, circa 600 volte all’ora. La cleanroom della Fab 18 di TSMC è pari circa a 25 cambi da calcio per estensione, oltre ad essere uno dei luoghi più inaccessibili sulla Terra. C’è inoltre una sub-fab altrettanto importante, che è quella dedicata agli agenti chimici (sui quali sono in corso attività per rilevare eventuali perdite o fuoriuscite che potrebbero avere impatti ambientali) impiegati per trattare i wafer di silicio prima di essere esposti alla luce ultravioletta. Inoltre, queste strutture vengono costruite in luoghi scelti per minimizzare il più possibile le vibrazioni, che potrebbero compromettere il funzionamento dei macchinari (come le EUV di Asml): strumentazioni che sono le più costose all’interno della fonderia. E’ dunque immaginabile come un terremoto di questa portata possa aver fatto scattare le misure più stringenti in termini di safety e monitoraggio, andando così ad inceppare un processo molto delicato. Due sono gli aspetti cruciali.

Il primo: il tempo. La produzione di un singolo chip richiede fino a 1500 fasi, alcune delle quali come l’ossidazione e il rivestimento, la litografia, l’incisione e il dopaggio con i fotoresistori, sono ripetute centinaia di volte, a seconda del chip specifico e della sua complessità. Una singola vibrazione può dunque compromettere l’intero processo, diminuendo il tasso di rendimento (ovvero il numero di wafer prodotti e utilizzabili). Pertanto, la fabbricazione dei wafer dall’inizio alla fine (tempo di ciclo) richiede in media 12 settimane, ma può arrivare fino a 20. Infine, i wafer vengono consegnati ai produttori di back-end (assemblaggio, test e confezionamento, come ASE Group). In totale, la produzione di un chip viene effettuata in un periodo di tempo di 6 mesi: è dunque inevitabile per l’industria pianificare la produzione, concordata con i clienti, nel lungo termine e gli ordini effettuati con largo anticipo (un aspetto che aveva compromesso l’industria automotive nel periodo pandemico, quando i produttori di chip diedero priorità ai OEMs dell’elettronica di consumo).

Il secondo: l’economia di scala e i costi. Considerando gli alti costi di capitale per operare le fonderie (specialmente quelle più recenti e avanzate, come la Fab 18 di TSMC), vi è l’esigenza di mantenere costantemente alti i tassi di utilizzo delle fabbriche nella produzione di semiconduttori: questi ingenti investimenti sono redditizi solo se le fabbriche funzionano 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, con tassi di utilizzo pari o superiori all’80%. È dunque logico che uno stop improvviso o non rendicontato (i costi di manutenzione, per esempio, lo sono) dovuto a uno shock come un terremoto o un blackout (che potrebbe causare circa 12 settimane di perdite di produzione, come accadde nel 2020 per un impianto di Micron) vanno a detrimento di questo delicato equilibrio economico.

“Alcuni dei chip più avanzati necessitano di operazioni continue (24/7) in uno stato di vuoto per settimane” hanno infatti commentato gli analisti di Barclays in una nota, riportata da Bloomberg. “La sospensione delle attività nelle aree industriali nel nord di Taiwan potrebbero risultare in produzioni viziate”. Ecco come una concentrazione della produzione e il supply risk (concretizzatosi, in questo caso, con un evento esogeno) rendono i semiconduttori prodotti a Taiwan (a prescindere dalla scala nanometrica, che in questo caso diventa uno dei parametri di valutazione ma non quello prevalente) degli asset ‘critici’ e non più solo strategici per l’economia globale in generale e nella competizione tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia, sembra che le attività abbiano ripreso nella parte occidentale dell’isola, con danni minimi. Le azioni di Tsmc e Umc sono leggermente scese sui mercati internazionali.

Questo tragico evento, ad ogni modo, rafforzerà ancor di più la consapevolezza di dover diversificare il più possibile le forniture, soprattutto nell’ottica di crescenti tensioni tra Washington e Pechino. Xi Jinping ha ribadito in una telefonata a Joe Biden che Taiwan rappresenta “una linea rossa” da non oltrepassare, mentre il Presidente americano ha ribadito “l’importanza di mantenere la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan e lo stato di diritto e la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale”, si legge nella nota diffusa dalla Casa Bianca. La centralità di Taipei nell’industria dei semiconduttori non rappresenta, tuttavia, il potenziale punto di attrito tra i due paesi che invece riguarda questioni di natura militare, storica e di equilibri nella regione.

L’attività di pressione sul governo di Taiwan, e soprattutto sugli industriali e i manager come il ceo di Tsmc, C.C. Wei, sembra aver dato comunque alcuni frutti negli utlimi due anni, con l’espansione dell’azienda negli Usa, in Europa e Giappone (anche se non esportando il prezioso know-how per la produzione dei chip leading-edge). Ma si tratta comunque di una percentuale della capacità produttiva dell’azienda risicata rispetto agli asset industriali – e all’ecosistema di fornitori, ingegneri e lavoratori specializzati dell’area di Hsinchu e Tainan – che sono concentrati sull’isola.


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