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Chip, così Taiwan vuole rallentare l’export di materiali in Cina

Le nuove regole, se approvate, espanderebbero il presidio anche su fotomaschere, substrati e materiali per la fabbricazione di semiconduttori. Intanto, Tsmc espande il suo impero in Giappone, mentre gli Stati Uniti…

Il governo di Taiwan potrebbe considerare di ampliare il ventaglio di prodotti e tecnologie, utilizzate nella manifattura di microchip, proibiti per l’export in Cina. È questo quanto emerge dalle parole di un portavoce del ministero per gli Affari Economici, dicastero che starebbe preparando un secondo round di export control dopo quello stabilito lo scorso dicembre e che prevedeva l’embargo di 12 tipologie di macchinari per la produzione di chip sotto i 14 nanometri.

Tra i nuovi prodotti che verrebbero inclusi, le fotomaschere  ̶  si tratta di materiali che riproducono il progetto originale del circuito integrato, inserite sul wafer di silicio e poi sottoposti allo scanner litografico  ̶  prodotte da aziende taiwanesi, substrati (ovvero i wafer di silicio impiegati) e film sottili, ovvero pellicole molto sottili (circa 10 micrometri o meno di spessore) depositate sul substrato di silicio durante il processo di fabbricazione dei chip.

Si tratterebbe di un ulteriore passo verso il contenimento tecnologico di Pechino da parte di un attore chiave nella supply chain dei semiconduttori, dopo il round di restrizioni imposte dal Dipartimento del Commercio americano sull’export di macchinari litografici avanzati (EUV) e più maturi (DUV) con l’allineamento dell’Olanda (patria di ASML) e di Tokyo (il Giappone è un altro importante player nella fornitura di materiali per la fabbricazione di chip). L’equipaggiamento avanzato è infatti tra le 22 tecnologie critiche che Taiwan non vuole che Pechino ottenga per questioni di sicurezza anche militare. Di recente, anche gli Stati Uniti hanno aggiornato una lista informativa di alcune tecnologie ritenute chiave per la supremazia globale nei prossimi decenni.

Secondo quanto ricostruito, il governo di Taipei non avrebbe ancora stabilito una data o preso una decisione definitiva, dal momento che sono ancora in corso consultazioni con l’industria dei semiconduttori e dell’elettronica avanzata di Taiwan. Il timore è che le restrizioni possano in qualche modo urtare gli interessi economici dei gruppi industriali, considerando che la Repubblica Popolare Cinese rimane un partner commerciale importante in questi settori.

Nel 2023 i ricavi dall’industria dei circuiti integrati (IC) di Taiwan hanno ammontato per circa $139,2 miliardi di dollari, con un calo del 10,2% rispetto al 2022, di cui $35,1 miliardi per il segmento design (giù dell’11,0%), $85,3 miliardi (con un calo dell’8,8%) per le attività di fabbricazione (foundry) e infine $12,6 miliardi (-15.6%) per il packaging secondo i dati della Taiwan Semiconductor Industry Association. Nel 2022, la Cina ha contato per circa il 57% dell’export taiwanese di prodotti IC, seguita da Singapore (11,6%), Giappone (8,2%), Corea del Sud (7,9%) e Malesia (5,2%). Gli altri paesi insieme hanno rappresentato il 9,4% delle esportazioni. Influenzata dalle incertezze geopolitiche, come la guerra tra Russia e Ucraina, il protrarsi della ‘guerra’ sui chip tra Stati Uniti e Cina (che comunque non ha impattato considerevolmente il fatturato di Tsmc e Asml nel corso del 2023) e l’inflazione globale, molte delle industrie elettroniche di Taiwan hanno dovuto fronteggiare un calo della domanda.

In questo contesto, i media taiwanesi hanno riferito che funzionari del Dipartimento del Commercio Usa incontreranno gli omologhi del governo di Taipei nel mese di marzo e i rappresentanti dell’industria dei chip, che si concentra tra Hsinchu e Tainan, per discutere dell’embargo americano e di possibili nuove restrizioni alla Cina.

Tra le aziende al centro di queste mosse, naturalmente Taiwan Semiconductor Manufacturing Corp (Tsmc). Il colosso dei chip fondato da Morris Chang – che ha più volte parlato della fine della globalizzazione per il settore nel contesto della competizione tra Usa e Cina, con possibili ripercussioni sulla necessaria specializzazione di ciascun segmento della supply chain qualora prevalesse un ricorso ossessivo al reshoring – ha intrapreso una strategia di diversificazione delle attività manifatturiere, perlopiù attirato dai sussidi del Chips Act americano (che tuttavia non ha risolto le contraddizioni e le difficoltà dell’ecosistema americano di rispondere alle esigenze, per lo più di capitale umano, per una foundry all’avanguardia come quella di Phoenix) e di recente da Tokyo con l’apertura della nuova fab di Kunamoto in partnership con Renesas, Denso e altre realtà high-tech giapponesi.

La Segretaria al Commercio, Gina Raimondo, ha espresso durante un discorso presso il Center for Strategic and International Studies (Csis), grande fiducia per gli obiettivi del Chips Act: “Oggi mi presento a voi con fiducia per dire che entro la fine del decennio passeremo da zero al 20% di prodotti all’avanguardia costruiti negli Stati Uniti d’America. E anche le catene di fornitura verranno di conseguenza”. Di recente, GlobalFoundries, terzo chipmaker al mondo, ha ottenuto oltre $2 miliardi di incentivi per costruire nuove fonderie sul suolo nazionale. Ma vi sono, tuttavia, voci molto più critiche e che delineano un quadro più fosco, soprattutto per gli interessi dell’isola e delle sue industrie.

“Come la guerra, la politica industriale ha molte conseguenze indesiderate. La disponibilità di denaro gratuito rischia di trasformare Tsmc da un’azienda che si è concentrata incessantemente sull’innovazione a una più preoccupata di ottenere sovvenzioni”. È uno dei rischi che correrebbe l’azienda, secondo esperti e docenti taiwanesi, in questa corsa al trade-off tra sicurezza e leadership tecnologica che attanaglia Taiwan, considerando che gli Stati Uniti hanno fatto molta pressione per riportare sul suolo nazionale produzione di chip ai nodi avanzati. Tsmc, dunque, rischierebbe di perdere il focus sull’innovazione proprio ora che la corsa all’intelligenza artificiale si presenta come un’opportunità e una sfida per la fabbricazione in scala di chip IA, oltre ad indebolire le capacità e gli investimenti sull’isola in un circolo vizioso.

La possibile perdita di Tsmc della sua posizione dominante nel segmento foundry (un’eventualità che, tuttavia, è lungi dall’essere inevitabile in una situazione di business as usual, considerando che le aziende di design come Nvidia e AMD difficilmente cambiano fornitori e partner di lunga data) potrebbe così rafforzare l’idea che gli Usa pensino unilateralmente alla propria vulnerabilità e dipendenza sui chip, senza considerare che “se l’economia o la sicurezza di Taiwan venissero compromesse, il danno arrecato alla sicurezza nazionale americana sarebbe superiore a qualsiasi guadagno derivante dall’ottenimento di una maggiore (e più costosa) capacità di semiconduttori negli Stati Uniti”.

Come nel caso dell’Inflation Reduction Act (Ira), dove molta enfasi è riposta anche sul friendshoring verso Corea e altri paesi con cui gli Stati Uniti hanno in essere accordi commerciali per diversificare le forniture di materiali critici e componentistica per le batterie, l’annuncio della fab in Giappone di Tsmc potrebbe essere un esempio: maggiore sicurezza industriale in un paese alleato, senza tuttavia depredare tecnologie e risorse di Tsmc e impiantarle in un contesto (quello americano) che non sembra offrire le stesse garanzie economiche e di forza lavoro specializzata.

In questo delicato equilibrio, il possibile ricorso del governo taiwanese alle restrizioni di materiali per l’industria dei chip taiwanese potrebbe tuttavia confermare la volontà politica di Taipei di allinearsi a Washington, nonostante le critiche avanzate da accademici e industriali alla strategia americana che contempla tra le massime priorità il reshoring. Secondo Lien Ching-chang, direttore generale dell’Ufficio per lo sviluppo industriale del Ministero, le restrizioni di dicembre non avrebbero urtato Tsmc che contava sulla Cina per il 10-12% del fatturato totale per i nodi tra i 14-16 nanometri (quelli al di sopra della soglia). L’azienda ha fonderie a Shanghai e Nanjing, che tuttavia operano a nodi maturi e che, dunque, hanno permesso a Tsmc di applicare per gli incentivi del Chips Act (che prevede elargire sussidi a patto di non espandere capacità produttive avanzate in paesi classificati come Feoc – foreign entity of concern).

Qualora Taipei imponesse l’embargo di fotomaschere, una delle potenziali aziende colpite potrebbe essere Taiwan Mask Corporation, che punta a rifornire le fonderie a 28 nanometri. Nel 2022, l’azienda aveva dichiarato un fatturato di 7,6 miliardi di dollari, di cui il 62% verso Corea, Cina e Giappone mentre il 38% dalle fonderie taiwanesi.

Per i chip più maturi (tra i 28 e i 90), le fonderie cinesi fanno affidamento principalmente su fornitori giapponesi, americani (che godono rispettivamente del 60% e del 28% del mercato) dal momento che Pechino in questo segmento specializzato sconta un ritardo comunque importante (le aziende nazionali riforniscono produttori che operano sopra i 130 nanometri). La reazione della Cina sarebbe sicuramente speculare, considerando che sui nodi maturi sta aumentando il divario di capacità produttive con l’Occidente.

Come rappresaglia, con tutta probabilità andrebbe a toccare gli elementi più scoperti delle supply chain su cui gli Stati Uniti e l’Europa cercano di correre ai ripari, come le materie prime critiche (tra cui gallio, germanio e grafite su cui già vige un regime di licenze per le esportazioni). Ma soprattutto spingerebbe ancor più Pechino nel sussidiare le sue aziende e industrie, per cercare il più possibile di raggiungere la sovranità tecnologica in segmenti cruciali della filiera.

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