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Cina, cos’è il visto “K” e perché non piace ai giovani

Una modalità di ingresso notevolmente più semplice e con più vantaggi all’ingresso sul territorio cinese. La mossa del governo per attrarre geni della tecnologia, e non solo… L’analisi del settimanale The Economist

Nei moduli dell’immigrazione cinesi c’è un nuovo visto che sta facendo arrabbiare specialmente i giovani. Si chiama visto “K” e offre periodi lunghi di permanenza, una modalità di ingresso notevolmente più semplice e con più vantaggi all’ingresso sul territorio cinese. Nella storia, la Cina non ha avuto un destino facile. Nell’ultimo censimento, che risale al 2020, si è registrato uno scarso 0,1% della popolazione (di 1,4 miliardi di persone) di immigrati (dati del settimanale The Economist).

Ma nell’ultimo mese l’atteggiamento del governo di Pechino è cambiato. A differenza degli Stati Uniti di Donald Trump, la Cina sta aprendo le sue porte ai giovani talenti, grazie a questo visto, e vuole posizionarsi come un’alternativa, specialmente per chi lavora nel settore tecnologico.

In con­tra­sto con l’H-1B americano, il visto “K” cinese non richiede la spon­so­riz­za­zione del datore di lavoro, dando ai gio­vani lau­reati l’opportunità di avviare nuove imprese, fare ricerca o semplicemente continuare a studiare. Non sono stati forniti dettagli sui requisiti, ma si sa che saranno considerati “età, back­ground edu­ca­tivo ed espe­rienza lavo­ra­tiva” e i visti “K” saranno probabilmente gestiti in “modo flessibile” dal ministero degli Affari esteri, da quanto si legge sul sito ufficiale.

Lo scorso 30 settembre, Peo­ple’s Daily, por­ta­voce del Par­tito Comu­ni­sta cinese, ha confermato che “la Cina è più affa­mata di talenti che mai”. E l’obiet­tivo con questo visto è che i gio­vani scien­ziati e inge­gneri pro­ve­nienti da isti­tu­zioni rino­mate possano arrivare in Cina. Ma il governo cinese man­terrà il pro­gramma, stret­ta­mente con­trol­lato, di pic­coli numeri e cri­teri rigo­rosi, in modo che sem­bri un reclu­ta­mento mirato, hanno spiegato alcuni analisti.

Una possibilità burocratica che sta piacendo molto ai talenti stranieri, ma che ha provocato una “reazione furiosa” in casa, secondo l’Economist: “Ciò è dovuto in parte a causa della forte ansia tra i gio­vani cinesi che lot­tano per tro­vare lavoro. Vedono la pro­spet­tiva di più lavo­ra­tori stra­nieri come più con­cor­renza ancora nel mer­cato del lavoro”.

Solo que­sta estate 12,2 milioni di neo-lau­reati sono usciti dalle uni­ver­sità cinesi, molti con lau­ree in inge­gne­ria, a cac­cia di posti di lavoro. Ad agosto del 2025, l’indice di disoccupazione giovanile è arrivato al livello più alto dal 2023: 18,9% dei giovani tra 16 e 24 anni in Cina non ha un posto di lavoro.

“L’epi­so­dio offre lezioni per il futuro – prosegue l’Economist -, quando la Cina avrà biso­gno di più immi­grati per aiu­tare a pren­dersi cura della sua popo­la­zione che invec­chia. Una porta aperta non è la stessa cosa di un’acco­glienza orga­niz­zata”.


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