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Da Contrada a Piritore, la svolta nel delitto di Piersanti Mattarella

Gli sviluppi investigativi sui mandanti e gli esecutori materiali ancora ignoti dell’assassinio 45 anni fa a Palermo dell’allora presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella, registrano un importante salto di qualità che delinea scenari inquietanti. L’analisi di Gianfranco D’Anna

Un grumo di memoria e di intrecci riemerge dalla palude che già dalla tragica mattinata dell’Epifania del 1980, a Palermo, inghiottì gli accertamenti investigativi sull’assassinio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella.

Più che il nome dell’ex funzionario di Polizia Filippo Piritore la cui carriera, negli anni successivi all’agguato all’erede di Aldo Moro, ha incidentalmente avuto una notevole progressione fino alla nomina a Questore e a Prefetto della Repubblica, la stessa Repubblica che secondo la magistratura palermitana avrebbe servito infedelmente, a provocare un profondo senso di sgomento é il contesto che si intravede nella svolta di un’inchiesta giudiziaria che da 45 anni si avviluppa su sé stessa.

La constatazione che venne fatta sparire l’unica “prova regina” dell’uccisione di Piersanti Mattarella, un guanto di pelle marrone della mano destra, dimenticato dai killer sulla 127 usata per la fuga, inizia a squarciare la coltre oscura che avvolge l’assassinio di via Libertà.

Arrestato per depistaggio Piritore è accusato di aver inquinato le indagini e di aver continuato nel tempo a sviarle. Aver consegnato un reperto così importante, come il guanto dei killer, che venne ritratto in una delle fotografie dei rilievi tecnici compiuti il ​​6 gennaio 1980  dalla polizia scientifica, “a un operatore di polizia che non aveva alcuna competenza in materia e che non faceva parte della scientifica come Piritore, determinò – scrivono i magistrati della Procura nella richiesta di custodia cautelare per l’ex Prefetto – una stasi investigativa a causa della quale il guanto venne definitivamente dimenticato”.

Il quadro indiziario a carico di Piritore, scrive la Gip di Palermo Antonella Consiglio “è grave e plurimo… perché nulla di quanto da lui dichiarato è risultato non solo rispondente al vero, ma neanche alla logica ed all’elementare buon senso, tanto da apparire come un affronto per chi riceve e deve valutare tali dichiarazioni”. Come dire che l’allora funzionario di Polizia col suo continuo depistaggio avrebbe coperto i killer.

Ancora più sconvolgente la constatazione da parte degli inquirenti di come “figure istituzionali abbiano sviato, depistato, inquinato, ritardato le investigazioni sugli autori materiali del delitto, addirittura attraverso la soppressione di una fonte di prova privilegiata, l’unica che avrebbe potuto condurre direttamente all’assassino”.

Questo sarebbe avvenuto “per finalità di copertura la cui intima essenza rimane oggetto degli accertamenti in corso sull’identificazione degli autori dell’omicidio”.

A proposito dei depistaggi i magistrati citano l’allora Questore di Palermo Vincenzo Immordino, definito protagonista “di due tentativi di sviamento delle indagini”.

Per uno dei quali sarebbero stati sentiti con notevole ritardo, testimonianze fondamentali come lo stesso Ministro dell’Interno Virginio Rognoni, che Piersanti Mattarella aveva incontrato pochi giorni prima di essere assassinato per denunciare il ruolo di Vito Ciancimino e l’inquinamento mafioso della politica palermitana.

E quì, a trasformare l’inquietudine in incubo, negli atti sulla svolta che ha portato all’arresto di Piritore, spunta il nome del 94enne Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, l’allora servizio segreto civile, condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

“Per rimanere nell’ambito dei vertici di allora della Squadra mobile – scrivono infatti i magistrati – è anche emerso che all’epoca dei fatti, Bruno Contrada era sia il dirigente del Centro Interprovinciale Criminalpol per la Sicilia occidentale sia il dirigente ad interim della Squadra mobile di Palermo. A conferma, poi, del diretto e materiale svolgimento delle indagini da parte Contrada viene sottolineato che, a parte l’elevata rilevanza di quelle investigazioni che non potevano non coinvolgere i vertici delle Forze di Polizia palermitane, altri e diversi elementi concreti dimostrano che egli si occupò sin da subito e personalmente degli accertamenti sull’omicidio dell’onorevole Mattarella”.

Ad appena due anni dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, al quale stava per subentrare al vertice della Dc, l’assassinio di Piersanti Mattarella, definito un “democristiano diverso” un “politico con le carte in regola”, apparve subito anomalo.

Le indagini giudiziarie, tra cui l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone nella qualità di Procuratore aggiunto prima di trasferirsi a Roma, lo catalogano tra gli omicidi politico mafiosi.

Falcone è convinto della colpevolezza dei terroristi di estrema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei Nar, quali esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti eversivi e Cosa Nostra. Entrambi però vengono assolti.

Della galassia terroristica dei Nuclei armati rivoluzionari, che ruotava attorno alla banda della Magliana, facevano parte Francesco Mangiameli, Pier Luigi Concutelli e Stefano Volo che orbitavano fra Palermo e Roma.

Nella sentenza della Corte di Assise di Palermo del 12 aprile 1995 che condanna all’ergastolo tutti i boss della cupola di cosa nostra, a cominciare da Salvatore Riina, si legge che “l’istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito tra mafia e pubblica amministrazione, incidendo pesantemente proprio su questi illeciti interessi”. Condanne successivamente confermate in Cassazione, mentre gli esecutori materiali non sono mai stati individuati con certezza.

L’impressione è che “le carte processuali siano riuscite a fotografare solo la parte superficiale della storia”, sostiene l’ex Presidente del Senato e già Procuratore nazionale antimafia e Procuratore di Palermo Piero Grasso, il primo magistrato ad indagare sul delitto di Piersanti Mattarella.

La recente iscrizione sul registro degli indagati di due superkiller di mafia Nino Madonia e Giuseppe Lucchese, accusati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio del Presidente della Regione, fa inquadrare gli sviluppi dell’inchiesta in un ampio scenario di nuovi riscontri probatori, perizie, ulteriori testimonianze e probabili rivelazioni inedite.

L’ inchiesta é entrata nella fase più delicata dell’esatto posizionamento di tutte le tessere del mosaico investigativo col quale si sta ricostruendo, vagliando e verificando tutti i retroscena di uno dei delitti, istituzionalmente più gravi e dirompenti della Repubblica.

Raramente un’inchiesta su un delitto politico talmente grave, destabilizzante e scioccante come quello del fratello maggiore dell’attuale Capo dello Stato, si é trascinata per quasi mezzo secolo.

Non a caso gli unici paragoni possibili sono quelli con l’assassinio di Aldo Moro e le stragi di Piazza Fontana e di Bologna. Come se una parte dello Stato abbia fatto, e continui in parte a fare, di tutto per impedire ad altri organi dello Stato legale, la magistratura, gli investigatori, le commissioni parlamentari d’inchiesta, di indagare fino in fondo e di scoprire la realtà dei fatti.

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