Il caso Landini dice meno di quanto sembri sul piano del conflitto sindacale e molto di più su quello comunicativo. Mostra come in una politica iper-mediatizzata, il linguaggio sia la prima arena del potere. Ogni parola sbagliata rischia di legittimare l’avversario che voleva colpire. Ed è in quel momento che l’insulto diventa carburante: energia narrativa che alimenta la costruzione del personaggio. Meloni, in questo, resta maestra. L’analisi di Carone
Liberiamo subito il campo da un equivoco: non serve discutere se Maurizio Landini volesse o meno usare un insulto sessista verso Giorgia Meloni.
Poi, certo, ci sarebbe da aprire un bel capitolo non tanto sulla conoscenza dell’italiano (che nessuno mette in dubbio), ma sulla consapevolezza nello scegliere gli aggettivi giusti.
Perché la vera questione non è la parola in sé, non è il contenuto dell’attacco, e forse neanche l’intenzione.
Il vero tema è non dare a Meloni l’occasione perfetta per mettere in campo la sua più grande abilità: il ribaltamento della character assassination a suo favore.
L’insulto “cortigiana di Trump” ha attivato un riflesso simbolico: attaccare una leader è diventato un esercizio scivolosissimo perché si rischia sempre di cadere dalla parte della moralità (e non del merito) e del potere visto come forma di confessione da parte degli uomini.
E poi, indiscutibilmente, “cortigiana” vuol dire meretrice (e ovviamente cortigiano, no: vuol dire uomo “alla corte di”).
Misunderstanding, si dice: può darsi.
E però quella in cui è caduto Landini è una leggerezza quasi imperdonabile. Dopo anni dovrebbe essere evidente a tutti che gli insulti, per Giorgia Meloni, sono vero e proprio carburante: la spinta che le permette di rilanciare la propria narrazione ogni volta che qualcuno tenta di ostacolarla, reagendo non tanto sul piano politico, quanto su quello narrativo.
E infatti, la migliore difesa di fronte a un attacco personale è proprio “giocare” la parte della vittima, giusto per il tempo necessario a spostare il discorso sul terreno dell’etica e del linguaggio, costringendo l’avversario a cambiare registro, e il pubblico a rivalutare chi subisce l’attacco.
Il caso Landini, dunque, dice meno di quanto sembri sul piano del conflitto sindacale e molto di più su quello comunicativo. Mostra come in una politica iper-mediatizzata, il linguaggio sia la prima arena del potere.
Ogni parola sbagliata rischia di legittimare l’avversario che voleva colpire. Ed è in quel momento che l’insulto diventa carburante: energia narrativa che alimenta la costruzione del personaggio.
Meloni, in questo, resta maestra: perché sa che nella guerra simbolica di oggi, la vittima apparente è spesso quella che vince la battaglia del racconto.