La sempre più probabile chiusura del conflitto in Medio Oriente fa balzare in primo piano, per il presidente americano Trump, l’urgenza di porre fine anche alla guerra scatenata da Mosca contro l’Ucraina. Un epilogo da raggiungere sfruttando l’esperienza della forzatura militare e diplomatica esercitata su Hamas. L’analisi di Gianfranco D’Anna
Quella che si profila come la fine della guerra in Medio Oriente rilancia l’attenzione internazionale sul conflitto in Ucraina e pone l’accento sulla necessità di accelerare anche su questo scacchiere bellico la cessazione delle ostilità in corso da più di tre anni e mezzo.
Accelerazione, che sulla scia della massiccia accentuazione finale dell’offensiva di Israele contro Hamas, offensiva che ha raso al suolo Gaza e in definitiva messo con le spalle al muro il gruppo terroristico, potrebbe fare perno sul rafforzamento delle capacità non solo difensive, ma anche offensive di Kyiv per contrastare la comunque fallimentare invasione dell’armata russa.
Una svolta evidenziata dalla dichiarata intenzione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di fornire alle forze ucraine i missili Tomahawk con una gittata fino a 2.500 chilometri, in grado di colpire in profondità il territorio russo, mettendo nel mirino circa 2.000 obiettivi strategici. A cominciare dalle linee di rifornimento e i depositi di armamenti delle forze d’invasione di Mosca.
Eventualità destinata a trasformare l’attuale muro contro muro fra ucraini e russi, un’impasse che rappresenta comunque una sconfitta per Putin, in una catastrofica ritirata dell’armata russa.
A Mosca il ruolo dei Tomahawk è già un incubo per il Cremlino e la macchina della propaganda, che mostrano segni di crescente nervosismo. Da giorni le più alte cariche dello Stato e i media ufficiali, battono sullo stesso tema con toni sempre più minacciosi, denunciando quella che viene definita l’”inevitabile escalation”.
Lo stesso Putin ha avvertito che Mosca non potrà che reagire ad un tale scenario. “Si tratta di un passo molto serio verso l’escalation”, ha sottolineato da ultimo il viceministro degli Esteri, Serghei Ryabkov, ammettendo che l’edificio delle relazioni russo-americane si sta “sgretolando” e che, senza spiegare per colpa di chi, lo slancio del vertice di Ferragosto in Alaska, dove Putin e Trump si sono incontrati di persona, “si è ampiamente esaurito”.
Alzando ulteriormente il tiro, Ryabkov ha chiesto a Washington di astenersi da iniziative strategiche che la Russia potrebbe considerare come tentativi di influenzare le sue capacità di deterrenza nucleare.
“La risposta ai Tomahawk forniti dal Pentagono a Kyiv sarà dura e asimmetrica. Troveremo il modo di colpire coloro che ci causano problemi”, è stato il minaccioso monito di Andrei Kartapolov, presidente della commissione Difesa della Duma, intervistato dall’agenzia di stampa ufficiale Ria Novosti, mentre gli altri media ufficiali già ipotizzano l’entità dell’eventuale risposta di Mosca, anche preventiva, all’impiego da parte dell’ Ucraina dei Tomahawk.
Sulle pagine di uno dei quotidiani più diffusi, la Komsomolskaya Pravda, l’analista militare Viktor Baranets ricorda che potrebbero essere istallati missili russi a Cuba o in Venezuela. Il Moskovsky Komsmomolets intervista invece l’esperto militare Vladimir Popov, secondo il quale Mosca potrebbe mettere in campo direttamente contro Kyiev il missile balistico ipersonico Oreshnik con una gittata fino a 5.500 chilometri.
Una valanga di minacce e congetture che lascia intuire quanto, prima ancora di entrare in azione, i Tomahawk americani siano subito diventati un ostacolo insormontabile per i sogni di restaurazione imperialistica della Russia di Putin.