L’intesa di Busan è un passo tattico, non un cambio di rotta strutturale. Per Trump conferma che la pressione economica può dare risultati e rafforzare la posizione americana. Per Xi è un gesto di distensione utile a contenere le tensioni e sostenere un’economia in affanno. Le parti manterranno un dialogo tecnico, anche militare, ma la tregua — valida per un anno — resta fragile, parte di un confronto che resta anzitutto politico e strategico
La Casa Bianca ha diffuso alcuni dettagli raggiunti tra i leader di Stati Uniti e Cina, Donald Trump e Xi Jinping, nel faccia a faccia della scorsa settimana all’aeroporto internazionale di Busan-Gimhae, luogo asettico a ottanta chilometri da Gyeongju, dove si teneva il vertice Apec a cui entrambi partecipavano. L’intesa, per ora in linea generale (tutto sarà implementato da discussioni di livello inferiore già in corso in questi giorni), è stata criticata dai falchi anti-Cina — statunitensi e non — perché lascia troppo spazio a Pechino. Allo stesso modo, è stato criticato il lancio trumpiano del concetto di “G2”, sia da chi si sente escluso da quel sistema bipolare (ossia dal resto del mondo), sia perché con esso Trump avrebbe sancito il livellamento della Cina “alla pari” degli Usa, spiega una fonte diplomatica di un Paese non europeo. Tuttavia, l’accordo economico e commerciale raggiunto segna una tregua nella lunga stagione di tensioni tra Stati Uniti e Cina, “ed è già molto positivo, perché da una guerra commerciale avevamo tutto da perdere”, aggiunge quella stessa fonte. E in fin dei conti, “se G2 significa che Usa e Cina troveranno un dialogo costante e bilaterale per gestire il loro confronto, allora tanto meglio”.
C’è ancora un po’ di confusione, e soprattutto di tira e molla con gioco delle parti su diversi dettagli, ma ciò che si legge nel “fact sheet” della Casa Bianca conferma che quella trovata a Busan è un’intesa pensata per riequilibrare un rapporto divenuto negli ultimi anni sempre più conflittuale. Tutto descritto dalla presidenza Trump come “una vittoria strategica” per l’economia americana, in grado di rafforzare la sicurezza nazionale e sostenere lavoratori e imprese. L’accordo prevede impegni concreti da parte cinese, a partire dal contrasto al traffico di fentanyl, che negli Stati Uniti è diventato un tema politico e sociale di prima grandezza. Pechino si è impegnata a interrompere la spedizione di precursori chimici verso il Nord America e a rafforzare i controlli sulle esportazioni di sostanze sensibili, destinate anche a mercati diversi. Si tratta di risultati con rilevanza anche politica, visto l’impatto che la crisi degli oppiacei ha e ha avuto sull’opinione pubblica.
Il cuore dell’intesa riguarda tuttavia il commercio di materie prime strategiche. Dopo anni di restrizioni e controlli, la Cina sospenderà i limiti alle esportazioni di terre rare — come gallio, germanio e grafite — ripristinando un sistema di licenze generali per le imprese che riforniscono il mercato americano. Una misura che, di fatto, rimuove gli ostacoli introdotti tra il 2022 e il 2025 e che riapre le filiere globali della tecnologia e dell’industria verde. Le nuove licenze, valide anche per esportatori indiretti e fornitori globali di aziende statunitensi, cancellano anche le grosse restrizioni annunciate da Pechino il 9 ottobre scorso, che avevano allarmato l’industria high-tech occidentale.
L’intesa comprende anche la fine delle ritorsioni economiche contro le aziende statunitensi. Pechino sospenderà i dazi introdotti negli ultimi mesi su un’ampia gamma di prodotti agricoli — dalla soia al grano, dalla carne al cotone — e cancellerà le misure non tariffarie che avevano colpito il settore dei semiconduttori. Tra queste rientra la rimozione delle società americane dalle cosiddette “unreliable entity lists” e la chiusura delle indagini antitrust e anti-dumping avviate nei mesi scorsi contro i produttori statunitensi di chip. Sul tema dei semiconduttori, menzione specifica per il caso Nexperia (da leggere l’analisi di Luca Picotti): a proposito della società olandese, si precisa che la Cina “prenderà misure appropriate per garantire la ripresa delle esportazioni dalle strutture di Nexperia in Cina, consentendo che la produzione di chip legacy critici fluisca verso il resto del mondo”. La Cina, inoltre, riprenderà gli acquisti di prodotti agricoli americani, impegnandosi a comprare almeno 12 milioni di tonnellate di soia entro la fine del 2025 e 25 milioni di tonnellate all’anno fino al 2028, riportando i flussi commerciali ai livelli precedenti allo scontro dei dazi. Saranno inoltre ripresi gli acquisti di sorgo e legname pregiato statunitense, sospesi dal 2023.
Gli Stati Uniti, in cambio, alleggeriranno buona parte delle tariffe imposte nel quadro della guerra economica. A partire dal 10 novembre, Washington ridurrà di dieci punti percentuali i dazi aggiuntivi sui prodotti cinesi legati al contrasto del fentanyl, mantenendo tuttavia un livello residuo del 10%. Saranno inoltre sospese per un anno alcune misure restrittive, tra cui l’estensione dei controlli agli “end user” e le azioni derivanti dall’indagine di sezione 301 sui settori marittimo e cantieristico cinesi — un compromesso che sembra in contrasto con la retorica del rilancio dello shipbuilding statunitense, attualmente molto indietro rispetto a quello cinese e parte della scommessa strategica di Washington che non si limiterà a questa amministrazione Trump.
L’intesa di Busan è un passo tattico, non un cambio di rotta strutturale. Per Trump, conferma che la pressione economica può dare risultati e rafforzare la posizione americana. Per Xi, è un gesto di distensione utile a contenere le tensioni e sostenere un’economia in affanno. Le parti manterranno un dialogo tecnico, anche militare, ma la tregua — valida per un anno — resta fragile, parte di un confronto che resta anzitutto politico e strategico.















