Dopo il lancio del satellite Sentinel-1D, ultimo tassello della prima costellazione del programma europeo Copernicus, l’Europa guarda con rinnovata ambizione alla nuova frontiera della space economy. Ma per colmare il divario con Stati Uniti e Cina serve un cambio di passo nella governance e nei modelli industriali. A confermarlo è Andrea Mascaretti, presidente dell’Intergruppo parlamentare per la space economy
Con il lancio del satellite Sentinel-1D, ultimo tassello della prima costellazione del programma europeo Copernicus, l’Europa compie un passo decisivo nell’osservazione della Terra. Ma il cammino verso una vera space economy continentale richiede un’accelerazione sul piano industriale e decisionale. Airpress ne ha parlato con Andrea Mascaretti, presidente dell’Intergruppo parlamentare per la space economy nonché promotore della seconda edizione degli Stati generali della space economy, che hanno riunito istituzioni, imprese e ricerca in un confronto a tutto campo sul futuro del settore.
Il lancio di Sentinel-1D rappresenta un nuovo successo per l’Europa. Che significato ha per l’Italia?
È un traguardo importante, non solo tecnologico ma anche politico e industriale. Il Sentinel-1D, parte del programma europeo Copernicus, è stato lanciato dalla base di Kourou con un vettore Ariane ed è un risultato che conferma la solidità dell’asse italo-francese nell’aerospazio, rafforzato peraltro dalle collaborazioni tra Leonardo, Thales e Airbus.
In questa missione c’è molta Italia, a partire dal contributo industriale e scientifico. Copernicus consente di osservare la Terra giorno e notte, in ogni condizione atmosferica, con sensori radar di altissima precisione. Parliamo di uno strumento straordinario per monitorare frane, attività vulcaniche, deforestazione, risorse idriche o scioglimento dei ghiacciai. È un servizio all’umanità, ma anche la prova che il nostro Paese dispone di un’intera filiera spaziale e di competenze d’avanguardia.
Guardando ai grandi player globali, quanto è ampio oggi il divario tra Europa e competitor come Stati Uniti e Cina?
Il divario non è tecnologico, ma di velocità decisionale e modello industriale. Gli Stati Uniti hanno aperto la strada ai privati, che con i loro investimenti miliardari hanno impresso un’accelerazione straordinaria al settore. In Cina, invece, il sistema è totalmente pubblico e centralizzato, quindi molto rapido nel prendere decisioni.
L’Europa, al contrario, soffre tempi decisionali lunghi e una governance complessa, dove ogni Paese ha la propria agenzia, le proprie regole e procedure. Il rischio è che, con ulteriori regole contenute nello Space Act, si crei addirittura un doppio livello di burocrazia. Servirebbe una maggiore integrazione tra gli Stati membri e decisioni più rapide, perché le nostre industrie e i nostri centri di ricerca hanno eccellenze riconosciute nel mondo.
L’intesa tra Leonardo, Thales e Airbus può rappresentare un passo nella giusta direzione?
Assolutamente sì. L’industria sta già facendo ciò che la politica fatica ancora a fare: unire le forze. Le aziende europee stanno dando vita al primo vero colosso continentale dell’aerospazio, ma serve che anche i governi seguano con la stessa rapidità. Oggi gli Stati Uniti possono contare su privati che lanciano satelliti ogni due giorni, grazie a lanciatori riutilizzabili e modelli produttivi su scala industriale. L’Europa, invece, resta ancorata a un approccio più “scientifico-artigianale”. Dobbiamo passare dal finanziamento a progetto al finanziamento a mercato, e cioè creare le condizioni per attrarre capitali privati e sostenere la crescita di un ecosistema competitivo.
In questo quadro, quale ruolo può giocare l’Italia?
L’Italia è già protagonista. Abbiamo una filiera completa, capacità tecnologiche riconosciute e un governo stabile che ci consente di guardare al lungo periodo. In più, il ministro Urso sta lavorando con i colleghi francese e tedesco per rafforzare il triangolo industriale che può trainare tutta l’Europa. Se Francia e Germania vivono oggi una fase politica più complessa, l’Italia ha la possibilità e la responsabilità di assumere un ruolo di leadership europea nella space economy.
La seconda edizione degli Stati generali della space economy, conclusasi la scorsa settimana, ha mostrato un grande fermento in tal senso. Qual è il suo bilancio dell’iniziativa?
È stato un successo oltre ogni aspettativa. Abbiamo organizzato tre tappe – Roma, Torino e Milano – con 10 sessioni di lavoro e 500 relatori tra industria, ricerca, università, istituzioni e finanza. Tre ministri, quattro sottosegretari e perfino una lettera del presidente del Consiglio hanno confermato la forte attenzione del governo. Ma la cosa più importante è stata la partecipazione degli operatori, non solo quelli “tipicamente spaziali”, ma anche aziende di altri settori che forniscono tecnologie o servizi connessi allo spazio. È la dimostrazione che la space economy è ormai un sistema-Paese.
Quali temi e proposte sono emersi dai lavori dei tavoli?
Stiamo raccogliendo tutti i contributi per redigere un documento di indirizzo che sarà consegnato al governo. Tra i punti principali, c’è l’esigenza di allineare università e industria per far sì che la formazione risponda ai bisogni reali delle imprese, aggiornando competenze e percorsi di studio.
Un altro tema forte è il sostegno alle startup, con l’idea di creare un grande fondo di garanzia pubblico-privato capace di mobilitare miliardi di euro e ridurre i rischi per gli investitori. È una logica simile a quella americana: puntare su molte iniziative sapendo che alcune falliranno, ma anche che altre genereranno risultati enormi. Infine, grande attenzione al capitale umano, perché la crescita del settore rischia di essere frenata più dalla mancanza di competenze che da quella di fondi.
Lei richiama spesso al valore della visione politica nelle grandi imprese scientifiche. Perché è così importante oggi?
Perché ogni grande impresa, marina o spaziale, nasce da una decisione politica coraggiosa. Quando Colombo partì, furono i reali di Spagna (solamente perché l’Italia ancora non esisteva) a credere nella spedizione e a finanziarla. Quando Luigi Broglio mise in orbita il primo satellite italiano, il governo dell’epoca scelse di investire in un sogno che sembrava impossibile. Oggi serve la stessa visione. Serve la consapevolezza che la space economy non è un lusso, ma una leva strategica per l’economia, la sicurezza e la ricerca. Molti Paesi vedono lo spazio come il futuro. Per l’Italia, quel futuro è già presente.
















