Stiamo leggendo in queste ore lodi sperticate al modello Wuhan, e non soltanto dai media del regime cinese. Il mantra è: quello sì che funziona, altro che la gestione maccheronica del coronavirus, dovremmo fare così. Sembra quasi che Pechino non abbia commesso errori. Anzi, sembra essere un modello, il modello da seguire nella gestione delle crisi di salute pubblica da tutti i Paesi del mondo.
C’è Hu Xijin, direttore del Global Times (testata del Partito comunista cinese), che su Twitter attacca il modello italiano suggerendo il pugno più duro: meglio fare come Pechino, dice. C’è l’ex sottosegretario Michele Geraci, un convinto sostenitore della Via della seta, che su Skynews e sul China Daily, altro organo del Partito comunista cinese, prova a rispondere alla seguente domanda: l’Italia, e le democrazie in genere, hanno la capacità di rispondere a una crisi del genere in modo efficiente?
La risposta, senza dover leggere l’intero editoriale, è in un tweet dell’ex sottosegretario leghista: “La Cina ha preso misure drastiche nel breve in cambio di guadagni nel medio termine. Si rialzerà più forte di prima; i consumatori sono già abituati a nuovi modi di vivere, quindi nuove opportunità”. Un passaggio dell’articolo però merita di essere riportato: “Contrariamente a quanto facciamo in Italia, la Cina parla di meno e fa di più, e lo fa per perseguire i suoi obiettivi di interesse nazionale, esattamente come dovrebbe fare qualsiasi governo”. Un editoriale che riecheggia quanto scritto alcuni giorni fa da Fabio Massimo Parenti, professore associato dell’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici a Firenze e habitué del blog di Beppe Grillo, sul Global Times. La sintesi: l’Italia critica la Cina e ora ne paga il prezzo.
Perfino il Corriere della Sera sembra cedere al fascino orientale. Certo, “a dicembre le autorità hanno sottovalutato, poi censurato”, si legge. Però “in Cina non ci sono ‘appelli alla ragionevolezza e alla responsabilità’, ma ‘ordini’ di stare chiusi a casa senza uscire e aspettare ulteriori disposizioni e il sostegno delle autorità”. E ancora: “In Cina il campionato di calcio costato centinaia di milioni in ingaggi di giocatori stranieri è stato congelato dalla sera alla mattina: nessuno si è sognato di lamentarsi. E per una volta, anche questa mancanza di discussione sul tema, dovuta al sistema autoritario cinese, andrebbe presa a modello”.
Tuttavia, come ha spiegato Giulia Pompili sul Foglio, il modello Wuhan non si può esportare. Per diverse ragioni: “Informare i cittadini, fornire strumenti adeguati, e poi lasciare la libertà di movimento serve a non terrorizzare le persone e a rendere sostenibili anche i costi di questa catastrofe”, si legge sul quotidiano diretto da Claudio Cerasa. Ma non solo. C’è un evidente problema di democrazia: è troppo facile cedere al fascino dei regimi nei momenti di difficoltà, quelli in cui il regime può sfruttare l’assenza dei contrappesi mentre le democrazie arrancano come ogni sistema complessa.
LA CENSURA
Se pensiamo che il modello Wuhan sia esportabile, allora dovremmo prepararci a vedere, senza poterci opporre, giornalisti arrestati dai servizi di sicurezza solo perché fanno il loro lavoro: è il caso di Li Zehua fatto sparire perché documentava la situazione nell’epicentro, come spiegato su Formiche.net. O anche come Fang Bin e Chen Qiushi, altri due giornalisti scomparsi nel nulla. E dovremmo accettare anche che i nostri media nascondano le contestazioni ai nostri politici come accaduto proprio a Wuhan nei confronti del vicepremier Sun Chunlan.
Ancora, dovremmo accettare di rinunciare alla nostra privacy come ha spiegato la sinologa Giada Messetti. E perfino smetterla di lamentarci dei giornali e delle televisioni che danno spazio a scienziati che non lo sono. Eh sì, perché è di pochi giorni fa la prima pagina del China Daily, altro organo del Partito comunista cinese, in cui si spaccia la medicina tradizionale cinese come soluzione al Coronavirus. Formule a base di erbe, agopuntura, agopressione e massaggio ai piedi, con tanto di “esperti” che dicono che molte guarigioni sono state raggiunte usando soltanto la medicina tradizionale cinese. Il tutto, ovviamente accettando che non ci sia alcun dato scientifico a sostengo della tesi.
GLI ERRORI DI PECHINO RICADONO SU ROMA E NON SOLO
Rebecca Arcesati, sinologa del Merics, su Twitter si è detta “stufa” di questa propaganda: “Bisognerebbe ricordare Paesi come l’Italia stanno pagando un prezzo pesante per l’incompetenza di Pechino”. E in un altro tweet, rispondendo a un altro utente, ha scritto: “Pechino ha commesso degli errori e ha anche fatto alcune cose giuste. C’è una certa narrativa, alimentato anche dalla propaganda del Partito comunista cinese, che tenta di cancellare le responsabilità di Pechino. Sicuramente concorda sul fatto che questa crisi globale non sarebbe stata così grave se l’epidemia non fosse stata coperta per mesi?”.
Incompetenze ed errori delle nostre democrazie non possono convincerci della bontà dei metodi di un regime. Tantomeno del regime che, nascondendo tutto, ha permesso al virus di espandersi nel mondo. È sufficiente leggere l’intervista che ci ha rilasciato oggi Joshua Wong. L’ex sottosegretario Geraci parla di “nuovi modi di vivere, quindi nuove opportunità”. Forse è qui che sta la maggior ragione di incompatibile tra i due modelli: nella convinzione occidentale che la repressione, le menzogne e la censura non siano né “nuovi modi di vivere” né “nuove opportunità”. Alla fine, nota ironicamente Giulia Pompili su Twitter, “anche i lavori forzati funzionano per la manifattura” salvo poi trovarci a fare i conti con casi come quello dello Xinjiang.
Secondo Axios Pechino starebbe cercando di utilizzare questa epidemia, inizialmente un disastro per l’immagine pubblica, in un’opportunità per il suo ruolo di leadership globale e per il suo soft power. Per farlo sta mettendo in campo tutti i mezzi del suo sharp power per spegnere i riflettori su di sé e puntarli verso l’Italia. Con il sostegno dei suoi propagandisti.