La regolamentazione del settore digitale, sempre se si può ancora parlare di Internet come se fosse un mondo a parte, sta mettendo in fibrillazione entrambe le sponde dell’Atlantico. Per questo occorre fare attenzione: qualora non ben dosata, la regolamentazione potrebbe facilmente far deragliare il treno dell’innovazione o dirottarlo su un binario morto. L’analisi del presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com) Stefano da Empoli
La regolamentazione del settore digitale, sempre se si può ancora parlare di Internet come se fosse un modo a parte, sta mettendo in fibrillazione entrambe le sponde dell’Atlantico. La scorsa settimana sono stati presentati alla Camera dei rappresentanti ben cinque disegni di legge per rendere le leggi antitrust statunitensi più severe nei confronti delle grandi piattaforme online. Contemporaneamente, a Bruxelles e a Strasburgo sta entrando nel vivo la discussione sulla doppia proposta di regolamento della Commissione europea relativa alla legge sui mercati digitali (DMA) e alla legge sui servizi digitali (DSA), presentate lo scorso 15 dicembre.
Se è assodato che i servizi digitali portano notevoli vantaggi per gli utenti sia dal punto di vista dell’innovazione, che dello sviluppo di nuove opportunità commerciali, il web odierno è molto diverso da quello dei suoi fondatori ma anche rispetto al 2000, anno in cui fu adottata in Europa la direttiva sul commercio elettronico, che oltre a norme comuni per lo stabilimento dei prestatori di servizi online e la fornitura di servizi di commercio elettronico, esonerava gli intermediari online dalla responsabilità per i contenuti gestiti (secondo il principio dell’approdo sicuro e in presenza di specifiche condizioni).
La scelta compiuta nel 2000 si è rivelata vincente, favorendo la straordinaria innovazione alla quale abbiamo assistito negli ultimi decenni (e che per inciso ci ha consentito di minimizzare i danni, quantomeno professionali e relazionali, della pandemia). Tuttavia, l’Internet di venti anni fa era ancora un fenomeno relativamente minoritario, non esistevano i social network né gli smartphone, muovevano i primi passi il commercio elettronico e i motori di ricerca. È dunque naturale e perfino necessario rimettere mano in maniera complessiva e sistematica alla regolamentazione digitale, dopo i tanti interventi verticali e più limitati che sono intervenuti nel frattempo. Anche perché, se non lo fanno le istituzioni europee, a prevalere sarà la frammentazione nazionale, con tanti saluti al mercato interno.
Occorre tuttavia evitare di cadere nell’errore opposto, cioè quello di regolare il digitale come se stessimo parlando di binari ferroviari o reti telefoniche. Cioè infrastrutture da un lato essenziali (e fin qui il parallelismo con il mondo di Internet può funzionare), dall’altro più o meno le stesse da più di un secolo a questa parte (e qui ogni paragone non tiene più evidentemente). Nel caso di specie, l’incertezza sui futuri modelli tecnologici e di business è enorme e, qualora non ben dosata, la regolazione potrebbe facilmente far deragliare il treno dell’innovazione o dirottarlo su un binario morto.
Si tratta dunque di assicurare un adeguato bilanciamento tra la giusta esigenza di tenere sotto controllo fenomeni nuovi e di crescente importanza, che incidono sui diritti fondamentali delle persone e sulla vita di cittadini e imprese, e la necessità di non ostacolare, ma piuttosto di favorire l’innovazione e la competitività nell’Unione europea (che a dirla tutta non se la passano benissimo). Evitando, dunque, l’introduzione di un apparato regolamentare che finisca per irrigidire e burocratizzare l’iniziativa economica e avendo bene in mente che una maggiore standardizzazione, inevitabilmente generata da una maggiore regolazione, rappresenta uno dei peggiori nemici dell’innovazione, se applicata prima che siano note la direzione e le caratteristiche di quest’ultima.
Come sostiene il report redatto da PromethEUs, network di think tank del Sud Europa, costituito dall’Istituto per la Competitività (I-Com) per l’Italia, l’Istituto reale Elcano per la Spagna e IOBE per la Grecia, è indispensabile evitare il pericolo che gli operatori online si vedano gravati da obblighi e responsabilità molto più onerosi di quelli gravanti sulle aziende offline. Una scelta del genere, in particolare, disincentiverebbe la digitalizzazione delle imprese, lo sbarco su internet di nuove piattaforme oltre che delle aziende già operanti offline e, in generale, ostacolerebbe il fiorire di nuovo modelli di business, in aperta antitesi con un mondo in cui la convergenza tra modelli di business offline e online è al centro di qualsiasi strategia aziendale basata sul buon senso.
Nel definire poi gli specifici obblighi da osservare, i principi guida dovrebbero essere quello della proporzionalità e realizzabilità uniti ad un’attenta valutazione dell’impatto dei costi di compliance soprattutto sugli operatori più piccoli al fine di ridurre, di nuovo, possibili effetti di disincentivazione nonché il rischio che la previsione di un regime troppo o esclusivamente concentrato sulle grandi piattaforme favorisca lo spostamento di attività e contenuti illegali verso le piattaforme più piccole, che sono chiaramente meno attrezzate per affrontarli.
La focalizzazione su poche piattaforme, tendenzialmente americane, sulla quale spinge il rapporto recentemente presentato dal relatore del DMA in Parlamento europeo, il tedesco Andreas Schwab, presenta altri due rischi, uno geopolitico e l’altro economico.
Il primo, e più immediato, è naturalmente quello di generare una reazione americana, di cui i primi segnali sono stati riportati da Formiche, proprio nel momento in cui l’Amministrazione Biden e l’Unione europea stanno riannodando i fili di una rafforzata alleanza, suggellata dalla costituzione del Consiglio UE-Stati Uniti per il Commercio e la Tecnologia. È vero che l’attuale amministrazione americana, a partire dalle nomine (è di queste ore la notizia che Lina Khan, acerrima critica delle Big Tech, presiederà la Federal Trade Commission, l’Autorità antitrust americana), sta mostrando un atteggiamento più conflittuale che in passato nei confronti dei principali player digitali, ma leggi ad aziendam risulterebbero inevitabilmente poco gradite dall’altra parte dell’Oceano (anche perché metterebbero in difficoltà l’agenda domestica del presidente, al quale sarebbe facilmente imputabile l’indebolimento delle società USA nella competizione internazionale per la supremazia tecnologica).
Ma c’è anche un’altra ragione che sconsiglia un’attenzione eccessiva alle grandi piattaforme. Per quanto possa non piacere ai puristi della concorrenza, oggi il principale fronte competitivo nell’ecosistema digitale si gioca proprio nella sfida tra i principali player. Ostacolarla o addirittura impedirla (come farebbero gli art. 5 e 6 della proposta di DMA), rischia di ridurre gli enormi benefici che affluiscono agli utenti.
Ci sono poi altri interventi, proposti dai relatori in Parlamento europeo del DSA e del DMA ma anche da alcuni Stati membri, che rischiano di provocare effetti dannosi per l’innovazione e la competitività dell’economia europea.
Ad esempio, rispetto alla proposta di DSA formulata dalla Commissione, limitare l’esenzione di responsabilità rispetto alle ipotesi in cui si valuti che una piattaforma online ha il controllo/autorità/influenza sul commerciante potrebbe influenzare negativamente la possibilità per molte PMI di commerciare i propri prodotti su nuovi mercati, aumentando i loro costi o addirittura cancellandone la presenza. Una prospettiva che dovrebbe preoccupare molto Paesi come l’Italia dove per molte piccole e piccolissime imprese il principale canale di esportazione potrebbe venire pregiudicato.
Mentre la proposta di prevedere modalità armonizzate di segnalazione della pubblicità online, sebbene appaia condivisibile nella finalità perseguita (migliorare la consapevolezza del consumatore relativamente ai contenuti commerciali), sembra sottovalutare il ruolo delle diverse tecnologie e la loro possibile evoluzione, rendendo la proposta tecnicamente macchinosa o di difficile realizzazione. Idem per quanto riguarda l’emendamento che vorrebbe garantire che le informazioni di interesse pubblico siano classificate in alto negli algoritmi delle piattaforme. Se potrebbe avere senso in circostanze eccezionali, nell’ordinarietà rischierebbe di violare la libertà di espressione e i principi del libero mercato. La proposta di esclusione del ricorso al profiling per qualsiasi sistema di raccomandazione, in base a un’impostazione predefinita, potrebbe inoltre ridurre considerevolmente i benefici per i consumatori connessi all’impiego delle moderne tecnologie come l’intelligenza artificiale.
La richiesta di introdurre una maggiore responsabilizzazione sugli algoritmi, consentendo alla Commissione di valutare gli algoritmi utilizzati dalle grandissime piattaforme online e determinare se rispettano una serie di requisiti, prevedendo sanzioni in caso di violazione, appare chiaramente sproporzionata ed in grado di impattare con forza sui modelli di business e sugli sviluppi tecnologici, ostacolando fortemente l’innovazione. Infine, lasciare la decisione di sospendere gli account dei social media che coprono questioni di interesse pubblico, compresi quelli dei politici, all’autorità giudiziaria competente invece che alla rispettiva piattaforme, dopo un giusto processo (che preveda naturalmente procedure di appello ex post sufficientemente veloci), appare invadente e pericolosa, aprendo la strada ad un regime di controllo statale che in alcuni paesi potrebbe tradursi in una grave violazione dei principi democratici.
Tra le proposte di emendamento del DMA, presentate da Schwab ma anche dai governi di Francia, Germania e Paesi Bassi, ce ne sono alcune che destano particolari preoccupazioni. Ad esempio, l’inasprimento dei controlli sulle fusioni potrebbe impattare negativamente sullo sviluppo delle start up, comprese quelle europee. Escludere l’applicazione del regime degli impegni alle grandi piattaforme, saggiamente prevista dal testo della Commissione, ridurrebbe la flessibilità necessaria ad affrontare efficacemente l’incertezza in mercati sottoposti a rapidi cambiamenti, lasciando con ogni probabilità la decisione finale al successivo contenzioso e dunque ai tribunali, con tutti i limiti che conosciamo.
I tempi più brevi e le scadenze più ravvicinate, proposti nel rapporto Schwab, potrebbero portare sì a giudizi più rapidi ma anche a decisioni ingiuste e affrettate (tenendo conto dell’eccezionalità dei meccanismi previsti dal DMA). Infine, se la messa in comune delle risorse nazionali e la promozione di un coordinamento e di una cooperazione più rigorosi tra gli Stati membri per sostenere la Commissione appaiono pienamente condivisibili, è necessario evitare la frammentazione applicativa, favorendo un’attuazione e un enforcement omogeneo a livello UE.
Solo lavorando con le forbici anziché con la mannaia si potrà assicurare che nei prossimi 20 anni il mondo online si sviluppi allo stesso ritmo dei due decenni precedenti. Allo stesso tempo, tenendo sotto controllo le criticità che inevitabilmente possono affiorare dai cambiamenti. E che è giusto che le autorità pubbliche affrontino, con adeguata risolutezza e tenacia ma anche con la sofisticazione necessaria ad evitare di gettare il bambino con l’acqua sporca.