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Libertà di iniziativa e auto-responsabilità, così riparte la pubblica amministrazione. Scrive Cancrini

Di Arturo Cancrini

L’opinione di Arturo Cancrini, avvocato, docente universitario, esperto di diritto amministrativo e delle opere pubbliche sul disegno di legge che punta ad abrogare il reato di abuso d’ufficio – votato dal Senato e ora all’attenzione del Camera – e sull’effetto combinato prodotto dal nuovo codice degli appalti

Suscita una serie di interrogativi il recente via libera, da parte del Senato, all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio contemplata dal disegno di legge del Guardasigilli Carlo Nordio.

Ci si potrebbe domandare, ad esempio, se la rimozione dell’articolo 323 del codice penale uscirebbe indenne dal vaglio di compatibilità con la proposta di direttiva europea del 3 maggio dell’anno scorso sulla lotta alla corruzione, là dove prevede la punibilità dell’abuso d’ufficio cosiddetto “di vantaggio” (articolo 11). All’atto di recepimento della direttiva – per lo meno se adottata nella sua attuale formulazione –, difatti, l’Italia si vedrebbe costretta a un inevitabile dietrofront, pena l’apertura dell’ennesima procedura di infrazione.

Ci si potrebbe anche chiedere se, in senso lato, questa fattispecie delittuosa svolga tuttora un ruolo significativo nella repressione e nella prevenzione dei fenomeni corruttivi. E se pertanto, qualora tale discussa modifica al Codice penale dovesse essere ripensata nei prossimi passaggi dell’iter legislativo, l’ordinamento ritrarrebbe o meno qualche beneficio dalla conservazione dell’istituto.

Nondimeno, a parere di chi scrive, la domanda più delicata è quale impatto l’abolitio criminis voluta dal Governo possa esercitare sul complicato contesto delle pubbliche gare, ristrutturato da meno di un anno con l’adozione del decreto legislativo numero 36 del 2023.

Ci pensa la Relazione al disegno di legge Nordio a fornire qualche ordine di grandezza, illuminando lo squilibrio tra il numero di iscrizioni nel registro degli indagati e il numero di condanne effettive ai sensi dell’articolo 323 del codice penale: i dati del 2021 rilevano 4.475 iscrizioni a fronte di un totale di 18 condanne all’esito di dibattimento in primo grado, oltre a 9 condanne dinanzi al Gup (Giudice dell’udienza preliminare) e a 35 sentenze di patteggiamento, con un tasso di archiviazione che, nel biennio 2021-2022, si attesta intorno al 90%.

I dati sembrerebbero quindi trancianti, per non dire impietosi.

Eppure, in audizione al Senato, pochi mesi fa il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, caldeggiava un intervento meno netto, consistente nel “puntualizzare, senza abrogare” l’abuso di ufficio, al fine di porsi formalmente in linea con la proposta degli organi Ue.

Ha ora tutti i torti, l’Anac, nel sostenere che, in disparte le esigenze di uniformazione alle regole euro-unitarie, la cancellazione del reato lascerebbe campo libero a favoritismi e dinamiche collusive di ogni sorta? Oppure, anche considerato che l’art. 323 del codice penale è norma di “chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ci troviamo di fronte a un orpello di dubbia utilità residua nel panorama degli appalti pubblici?

Cominciamo col dire che l’abrogazione dell’articolo 323 si pone in chiara continuità con il cosiddetto “scudo erariale” di pandemica memoria, allorquando un apprezzabile intervento legislativo (post)emergenziale, nel tentativo di affrancare gli appalti dalle maglie della temuta “burocrazia difensiva” e di rilanciare la produttività affossata da mesi di lockdown, ha circoscritto la responsabilità amministrativa dei funzionari al profilo del dolo.

E non è un caso che tale misura – pensata come temporanea ma poi prorogata fino a giugno 2024 (ed è attualmente in discussione un’ulteriore proroga fino al 2026) – sia stata accompagnata da un energico “ritocco” alla fattispecie dell’abuso di ufficio, che ha eliso il disvalore delle condotte attive che siano il frutto di valutazioni discrezionali (articolo 23 del decreto legge numero 76 del 2020), ivi compresa la discrezionalità tecnica (come chiarito da Cass. pen., Sez. VI, 15.4.2021, n. 14214).

A seguito della modifica apportata nel 2020, quindi, sotto il profilo commissivo è punibile la sola violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge e per altro siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Si tratta, in altre parole, dell’esercizio – in modalità illecite – di un potere vincolato.

La risposta al nostro quesito sta dunque nell’osservazione dell’approccio adottato dal nuovo Codice dei contratti pubblici, onde comprendere quale sia il rapporto quantitativo tra poteri discrezionali e vincolati e, pertanto, l’effettivo margine di incidenza della prospettata abrogazione del reato di abuso di ufficio.

Non occorre andare lontano. Difatti, come esplicitato a chiare lettere nella Relazione di accompagnamento predisposta dal Consiglio di Stato, vera e propria ratio ispiratrice del decreto legislativo numero 36 del 2023 è il recupero e la valorizzazione di adeguati spazi di discrezionalità dei funzionari.

Questa linea di indirizzo si respira sin dalla declinazione dei principi della materia, cui il nuovo Codice ha inteso restituire “valenza generale e orientativa” rispetto alla “compressione” cagionata dalle norme più dettagliate e operative del regime previgente (come nel caso dell’articolo 29 del decreto legislativo numero 50 del 2016 in punto di trasparenza).

Ne è emblema l’affiatata coppia “inaugurale” di principi risultato-fiducia, che il Consiglio di Stato descrive come “criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto”.
Non solo. Il principio del risultato viene direttamente riconnesso alla parziale amputazione dell’articolo 323 del codice penale, quale segno del superamento di quell’orientamento giurisprudenziale che, passando per i canoni di buon andamento e imparzialità, era giunto a ricondurre all’abuso d’ufficio anche il “semplice” eccesso di potere, frustrando oltre misura l’autonomia decisionale dei funzionari.

Quanto al principio della fiducia, lo scopo di addivenire celermente all’affidamento dell’opera pubblica al miglior contraente trova nell’articolo 2 del decreto legislativo numero 36 del 2023 un potente alleato, che incoraggia un indipendente utilizzo della discrezionalità e l’emancipazione dal mero rispetto della legalità formale.

Il discorso, comunque, non si arresta ai soli principi.

Si guardi, a titolo di esempio, alla stabilita equipollenza tra tutte le tipologie di gara (procedura aperta, procedura ristretta, procedura competitiva con negoziazione, dialogo competitivo e partenariato per l’innovazione), che consente una ponderazione tarata sulle esigenze del caso senza obbligo di motivare il ricorso alle procedure flessibili (articolo 70 del decreto legislativo numero 36 del 2023). O allo spazio accordato alla stazione appaltante nella precisazione di criteri e sotto-criteri per la selezione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, anche sotto il profilo della soppressione del peso ponderale massimo del 30% per la componente economica (articolo 108 del decreto legislativo numero 36 del 2023).

Oppure, ancora, alla drastica rivisitazione della disciplina delle offerte anormalmente basse, che rimette ora alla pubblica amministrazione procedente la scelta del sistema di anomalia, con eliminazione dei criteri di determinazione ex lege delle soglie e del numero minimo di offerte per l’avvio obbligatorio del procedimento (articolo 110 del decreto legislativo numero 36/2023).

Insomma, può ben dirsi che fil rouge del nuovo Codice sia la rinnovata e incrementata centralità della discrezionalità tecnica e amministrativa delle stazioni appaltanti, chiamate a individuare con maggior libertà – e, beninteso, cum grano salis – gli strumenti più adeguati a perseguire i propri obiettivi.

Sempre più angusta, quindi, l’area che le vigenti regole delle pubbliche commesse riservano all’attività vincolata, che però è proprio l’unica ancora lambita da quel che è rimasto dell’articolo 323 del codice penale dopo il depotenziamento del 2020.

Sotto altro aspetto, va anche considerato il dato, cui si è già accennato sopra, della rilevata sperequazione tra le iscrizioni della notizia di reato e il numero effettivo di condanne ai sensi dell’articolo 323 del codice penale.
Questa evidenza, a mio avviso, rivela quanto spesso e con quanta facilità – anche (o, forse, soprattutto) nell’ambito di una procedura a evidenza pubblica – l’abuso di ufficio venga strumentalmente agitato alla stregua di un pericoloso spauracchio. Cosa che, pur magari risolvendosi in un niente di fatto in sede penale per infondatezza della notizia di reato (come i dati sulle archiviazioni sembrerebbero attestare), è comunque sufficiente a indurre i funzionari della pubblica amministrazione procedente a un dannosissimo gioco in difesa.

In ultima analisi, l’abrogazione del reato di cui all’articolo 323 del codice penale ben si inserisce nel solco del rinvigorito affidamento sul buon uso della discrezionalità delle stazioni appaltanti, potendo favorire quella più ampia libertà di iniziativa e quella consapevole auto-responsabilità dei funzionari di cui il nuovo Codice, in molti casi in netta controtendenza con l’esperienza passata, si è fatto convinto e audace paladino.



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