Nel quinquennio appena trascorso la crescita media del Pil italiano, in termini reali, è stato pari all’1,3 per cento. Tasso che stando alle previsioni del Documento programmatico di finanza pubblica, appena licenziato dal Mef, sembra essere destinato a dimezzarsi. C’è però da aggiungere che nei cinque anni passati tutta l’Europa è andata male… L’analisi di Gianfranco Polillo
Rispondendo a Bruno Vespa che, nel suo salotto, si mostrava preoccupato per la crescita, Giorgia Meloni non si era tirata indietro. Vi sono, aveva risposto, elementi strutturali che frenano la “voglia di fare” dell’intera Nazione. Risposta diplomatica o diagnosi veritiera? Un po’ l’una e un po’ l’altra. Ma proprio per questo è bene non lasciar cadere il problema. Specie in un momento, come l’attuale, in cui il ministro Giorgetti, responsabile dei conti pubblici nazionali, predica prudenza ed un pizzico di rassegnazione. Scoprendo, forse un po’ tardivamente, considerata la posizione della Lega Nord in quel lontano periodo, il fascino discreto di Mario Monti e della sua politica di austerity.
Vi sono ragioni strutturali? Assolutamente sì. Basta guardare al quinquennio appena trascorso. In questo lasso di tempo la crescita media del Pil italiano, in termini reali, è stato pari all’1,3 per cento. Tasso che stando alle previsioni del Documento programmatico di finanza pubblica, appena licenziato dal Mef, sembra essere destinato a dimezzarsi. C’è però da aggiungere che nei cinque anni passati tutta l’Europa è andata male. Il tasso di crescita complessivo dell’Eurozona è stato del 6,4% (6,7% quello italiano). In questa poco attraente classifica, l’Italia si è collocata al 13mo posto (su 20), ma al secondo tra i quattro grandi. Superata dalla Spagna (8,9%), si è, invece, lasciata alle spalle, seppur di poco la Francia (6%), mentre la Germania (0,7%) sfiorava l’ultimo posto (Estonia con uno 0,3%).
C’è quindi una crisi più generale, che riguarda l’intero continente europeo. Anche se i suoi tratti più specifici variano da Paese a Paese, esiste un comune denominatore, costituito dalla bassa intensità della sua vocazione tecnologica. Ancora troppo concentrata sulla old economy, l’Europa fatica a misurarsi con quel domani prossimo venturo che sarà caratterizzato da un diverso paradigma: dall’Intelligenza Artificiale, ai nuovi materiali e alla progressiva decarbonizzazione. Settori il cui sviluppo richiede un’ingente disponibilità di risorse, ma soprattutto una vocazione specifica. Che porti al superamento della semplice frontiera dell’innovazione di processo, tipica del Continente, per approdare a quella di prodotto.
Lo scorso anno, secondo le ultime previsioni della Commissione europea (Forecast may 2025), l’Eurozona dovrebbe presentare un saldo attivo delle partite correnti compreso tra i 425 ed i 498 miliardi di euro, a seconda del metodo di calcolo seguito. Per avere un termine di paragone, il deficit americano, secondo le stesse previsioni, dovrebbe invece essere pari a circa 1.004,9 miliardi di euro. A dimostrazione del prevalere, in Europa, di un atteggiamento puramente mercantilista, destinato, in qualche modo, a dare ragione al sentimento di repulsione di Donald Trump. Poi sfociato nella sua politica dei dazi.
Da un punto di vista macroeconomico queste differenze sono state figlie delle profonde differenze nella politica seguita. Mentre negli Stati Uniti è prevalsa l’innovazione, in Europa si assunto un’atteggiamento irrazionalmente conservativo rispetto agli equilibri finanziari, che ha frenato la crescita complessiva ed accentuato le posizioni di rendita. Ne è derivato un tasso di crescita minore, ma soprattutto il mancato utilizzo delle risorse disponibili, gran parte delle quali sono state semplicemente messe a disposizione dell’estero. A discapito di un possibile maggior tasso di sviluppo interno.
I risultati di queste differenze sono stati: una crescente divaricazione del reddito disponibile, non del tutto compensata da una minore lievitazione del debito pubblico. Nel 2008 il reddito procapite americano sopravanzava quello dell’Eurozona del 14%. Nel 2025 questa differenza è risultata pari all’86% (Dati Fmi). A sua volta, il debito pubblico dell’Eurozona, nel 2024 è risultato pari all’87,4% del Pil, contro il 122,9 americano (dati Banca d’Italia). Differenza indubbiamente sensibile, ma non tale da giustificare il maggior sacrificio, in termini di sacrifici imposti alle rispettive popolazioni.
Insomma Mario Draghi aveva ragione nel dire che esiste un “debito buono” ed un “debito cattivo”. Il confronto tra gli Stati Uniti e l’Eurozona ne è la piena dimostrazione. Come aveva ragione, insieme a Enrico Letta, a denunciare l’assurdità di una situazione che vede i Paesi europei essere finanziatori netti, per una cifra pari ad oltre 300 miliardi l’anno, dello sviluppo altrui. Sotto forma di crediti concessi: il più delle volte senza pretendere alcuna partecipazione effettiva al processo decisionale. Ma, in prevalenza, semplici tagliatori di cedole e puri rentier.
Eurostat fornisce la cifra precisa di quest’atteggiamento passivo. Lo scorso anno la posizione patrimoniale netta dell’Eurozona nei confronti dell’estero era pari a 1.708,5 miliardi di euro. I principali creditori risultavano nell’ordine: Germania (3.452 miliardi), Olanda (697), Belgio (364), Italia (328), Austria (118). Altri minori (128). Il totale dei crediti concessi ammontava a 5.087 miliardi, di cui 3.378 a favore degli altri Paesi dell’Eurozona. I cui principali debitori risultavano essere: Polonia (1.034 miliardi), Francia (670), Spagna (654). Altri 11 Paesi per un totale di 1.019 miliardi. Il resto distribuito altrove.
In questo panorama l’Italia ha ottenuto buoni risultati. Un tasso di crescita superiore a quello tedesco, il cui attivo patrimoniale è quanto meno sconcertante (79,7% del Pil). Testa a testa con la Francia, quanto a ritmo di sviluppo, ma mentre l’Italia ha una posizione patrimoniale creditoria, la Francia è da tempo coperta da debiti: per un importo pari al 23% del Pil. La stessa Spagna che pure ha una crescita invidiabile, presenta una posizione debitoria pari al 41% del Pil. Segno evidente, in questo ultimo caso, di scelte in controtendenza rispetto alle fisime europee. Se per produrre di più bisogna indebitarsi all’estero ben vengano debiti che prima o poi saranno pagati dalla maggiore crescita.
Le scelte dell’Italia sono state diverse. Hanno addirittura suscitato il plauso di importanti operatori finanziari. Sì guardi, ad esempio il sito “Trading Economics” che fornisce a pagamento informazioni economiche a tutto tondo. “La posizione patrimoniale internazionale netta – ha certificato parlando del nostro Paese – ha raggiunto il livello record del 14,9% del Pil nel dicembre del 2024 ed un minimo record di – 25,2% del Pil nel marzo del 2014”. In questi dieci anni, un’estenuante maratona, che ha completamente ribaltato una vecchia e preoccupante situazione. Ci si può allora meravigliare se il sentiment rispetto all’Italia, in questi ultimi tempi, è profondamente mutato?
Gli elementi forniti si riferiscono al passato. Ma cosa ci riserva il futuro ed in particolare la manovra di finanza pubblica appena annunciata. Da qui al 2029, secondo le previsioni governative, avremo ancora un forte attivo della bilancia commerciale. Il saldo dei beni e servizi sarà ancora positivo, seppure più contenuto rispetto al passato. Da una media di 57,8 miliardi, in termini reali, secondo le previsioni del quadro programmatico, si dovrebbe passare ad una di 42,7. Un trend destinato a migliorare ulteriormente la posizione patrimoniale netta, che potrebbe attestarsi, alla fine, ad oltre il 21% del Pil. Metteremo quindi a disposizione dell’estero, nei prossimi anni, circa un quinto del prodotto interno, per avere in cambio un pugno di interessi. Atto di generosità un po’ folle per un Paese che ha bisogno di mille cose. Ma al Mef c’è qualcuno che se ne preoccupa?